19 – Io vado prepararvi un luogo

Trovare il nostro «luogo» oggi e per sempre

0516103di Lourdes E. Morales-Gudmundsson*

Tranquillizza la consapevolezza che qualcuno si adopera per preparare il terreno a una nuova esperienza; in questo modo non ci sentiamo arresi davanti a ciò che non conosciamo. Possiamo chiedere a qualcuno la strada sapendo che ci guiderà. Analogamente, Gesù desidera rassicurare i suoi discepoli dicendo che verrà fornita loro una guida mentre sarà assente e che il loro bisogno della sua compagnia sarà colmato dalla presenza dello Spirito Santo e dalla promessa di una dimora stabile nella quale vivere insieme a lui. E la sua partenza è la dimostrazione di quanto Gesù li abbia a cuore, perché lo scopo è quello di rendere la loro vita infinitamente migliore.

Preparare un luogo: offrire una comodità

Le situazioni di grande cambiamento sono spesso accompagnate da sensazioni di apprensione; i possibili rischi connessi non ci fanno dormire la notte e stringiamo i pugni pensando alla possibilità di un fallimento o di eventuali pericoli. Lamentiamo la perdita di controllo di un’esistenza comoda e prevedibile per andare incontro all’imponderabile. Anche quando l’ignoto contempla la prospettiva di grossi guadagni, l’essere umano tende a farsi piccolo di fronte al pensiero di una «nuova vita». Può spaventare l’idea di agire, pensare e vivere in modo diverso.

Quando Gesù disse ai discepoli che li lasciava per garantire loro una dimora eterna, toccava la corda della più umana delle fragilità: la paura dell’ignoto. La promessa di una residenza stabile ed eterna aveva lo scopo di alleviare le incertezze legate al fatto che la sua partenza li lasciava spiritualmente «senzatetto».

Fray Luis de Leon, poeta e teologo spagnolo del XVI secolo, scrisse un poema che catturava la trepidazione presente nel cuore dei discepoli mentre vedevano Gesù salire verso il cielo (At 1:9,10). Spesso leggiamo questo episodio interpretandolo come un momento di trionfo, e in parte sicuramente lo fu; ma se lo consideriamo dall’ottica dei discepoli, non è difficile immaginare il loro senso di smarrimento mentre si vedevano abbandonati e si sentivano orfani.

E adesso, santo Pastore, lasci il tuo gregge
in questa valle oscura e profonda di lacrime e solitudine
e, facendoti strada nell’atmosfera incontaminata,
sali verso la tua casa immortale?
Quelli che una volta furono beati
e ora tristi e afflitti,
nutriti al tuo seno,
e ora indigenti,
da che parte se ne andranno?

Le parole rassicuranti di Gesù, «vado a prepararvi un luogo», riconoscono l’esistenza di sentimenti contrastanti che indubbiamente stavano assalendo i discepoli mentre lo osservavano. Cosa avrebbero fatto ora e come sarebbero potuti andare avanti senza il Maestro?

Oh nuvola,
invidiosa anche di questa breve gioia.
Perché ti lamenti?
Perché te ne vai così di fretta?
Quali ricchezze porti via e, ahimè,
in quali condizioni di povertà e cecità ci lasci!

La certezza che Gesù stava andandosene con un obiettivo che alla fine si sarebbe rivelato per loro una grande benedizione, deve essere stata una magra consolazione per chi aveva imparato a dipendere dal Signore per una fede ritrovata. Adesso gli veniva chiesto di attendere il suo ritorno: «Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo» (At 1:11).

Gesù aveva la necessità di spiegare ai suoi amati fedeli il motivo della sua partenza, se non lo avesse fatto il Consolatore non sarebbe venuto; se non lo avesse fatto non avrebbe potuto preparare un luogo nel quale avrebbero vissuto per sempre insieme a lui. Quello che i loro occhi stavano vedendo e la separazione che stavano vivendo non poteva che generare in loro uno spaventoso presentimento. Ma gli occhi della fede li avrebbero aiutati a «vedere» spiritualmente al di là del dolore della perdita per appropriarsi della promessa.

Preparare un luogo: un senso di appartenenza

Appartenere a un luogo sviluppa energia. Prima di andarsene, Gesù rassicura i discepoli: appartengono a un luogo unico, vuole dare loro la certezza che la sua partenza non equivale a un abbandono, ma è un’occasione per aprire nuove porte a delle opportunità spirituali. Questo sarà, dice Gesù, un passo in alto e in avanti verso la vetta dell’esistenza umana: l’eternità in presenza del Signore e Salvatore. Il nostro senso di sicurezza e appartenenza può essere scalfito dalla povertà, dalla malattia, dalla perdita del lavoro, dalla morte. Si può vivere in una capanna o in una casa da sogno, ma le incertezze della vita ci annunciano che non potremo mai avere una dimora stabile su questa terra.

Gesù è definito autore della nostra fede (Eb 2:10; 12:2) perché non ha avuto paura di proseguire in avanti e verso l’alto per rendere ancora più ricca la nostra esistenza e darci un luogo che potremo chiamare «nostro per sempre».

Credevamo di essere felici, soddisfatti, di appartenere; ma Gesù è sceso su questa terra per mostrarci la vera sorgente della felicità, della soddisfazione e del benessere.

Preparare un luogo: fede e sofferenza

Un elemento interessante della fede è il suo inevitabile legame con la sofferenza; per quanto sgradevole, la sofferenza ha la capacità di rafforzare la nostra fede come nient’altro. Ecco un’altra testimonianza della saggezza di Dio nel permettere la sofferenza del Figlio e la saggezza di quest’ultimo nel lasciare osservare la sua partenza a quelli che lo avevano conosciuto e toccato. L’assenza talvolta può indurire il cuore ma, se all’amore è consentito fare il suo corso, il dolore che la distanza e il tempo possono infliggere riescono a farci desiderare ancora più ardentemente il compimento della promessa.

Gesù, ci è stato detto, è stato reso «perfetto per via della sofferenza» (Eb 2:10). Possiamo paragonare qualsiasi nostra sofferenza a quelle sopportate da Cristo per poterci preparare quel luogo? Ha bevuto fino in fondo il calice amaro del dolore; ha conosciuto una sofferenza che noi non saremo mai chiamati a vivere, perché era Dio che pativa, non un semplice uomo. La parola greca tradotta in questo caso con «perfetto» deriva dal vocabolo teleios, che significa completo o pienamente maturo. Le sofferenze hanno completato e maturato Gesù nella comprensione dell’alto prezzo pagato per aver accordato alle sue creature il libero arbitrio e, per assurdo, anche la libertà di ribellarsi. La sua esperienza sulla terra è stata un vero corso di apprendimento pratico sul peccato, anche se ha resistito a ogni tentazione. I suoi nemici lo hanno fatto soffrire; la crudeltà degli uomini nei confronti dei loro simili lo faceva soffrire quotidianamente. Persino i suoi amici, i suoi stessi discepoli, lo hanno fatto patire con la loro ottusità spirituale. Ma è proprio questa sofferenza vissuta nella vita e nella sua morte che gli ha permesso di diventare il sacrificio perfetto che andasse incontro alle esigenze della legge infranta. E saranno le sofferenze, affrontate con il giusto spirito, che creeranno in noi il giusto desiderio di vivere in quella casa con il nostro Salvatore, una casa che non dovremo mai lasciare.

Il Salvatore, l’autore della nostra fede, conosce a fondo i problemi che dobbiamo affrontare ma sa anche il premio che ci attende. «Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2:9). I fedeli del passato e del presente si rifiutano di credere a quello che vedono i loro occhi e sentono le loro orecchie e si aggrappano a quelle cose mai viste, dove ripongono ogni speranza. La loro fede prende forma e vita nelle promesse di Dio, che, per loro, sono buone e compiute.

Preparare un luogo: speranza e attesa

Colui che spera guarda ansioso al futuro, quando le cose andranno meglio, e attende pazientemente l’adempimento delle proprie aspettative. La speranza ci permette di andare avanti. «Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini» (1 Cor 15:19). Ci trasporta oltre questa vita terrena e tutti i problemi a essa connessi, per portarci là dove Dio ci sta preparando un «luogo».

Ma più che un punto geografico, «il luogo» promesso da Gesù è là dove si trova lui. Quel posto sarà riempito di una bellezza mozzafiato, estasiante non solo per le sue caratteristiche, ma per la presenza di chi ci vivrà.

Una ragazzina ammirò per la prima volta il cielo stellato notturno in aperta campagna: «Oh mamma», esclamò, «se il cielo è così bello anche dalla parte sbagliata, chissà come deve essere da quella giusta».

Anche se viviamo dalla «parte sbagliata» del cielo, possiamo essere ricolmi di speranza e fede nell’attesa del pieno compimento di entrambe.

Preparare un luogo: una collaborazione spirituale

«Vado», disse Gesù, ma la sua partenza non voleva essere un abbandono, tutt’altro! Piuttosto, doveva insegnarci che se abbiamo la volontà di metterlo al centro della nostra vita, inizieremo a dimorare in quel «luogo» qui e subito. Il Signore non può prepararlo senza la nostra collaborazione, si tratta di uno sforzo cooperativo che comincia adesso nei nostri cuori e nelle nostre menti e diviene manifesto nelle nostre case, nei nostri posti di lavoro e nelle nostre chiese. È per questo che lasciando a Gesù la guida della mia vita, posso iniziare a godere delle comodità (lo Spirito Santo), dei vantaggi (accesso alla potenza spirituale mediante la preghiera), dei bei giardini (coltivando l’amore nella mia vita) e degli stupendi dintorni (coltivando la gioia e la pace che vanno oltre la comprensione) di quel luogo promesso. Il paradosso del nostro Signore che parte, eppure rimane, è l’idea che ci guida e ci conforta nei momenti di dolore, che dona significato alle nostre esistenze e che ci colloca qui e subito in un luogo che sarà la nostra dimora per tutta l’eternità.

Se il cielo è così bello dalla parte sbagliata, chissà come deve essere da quella giusta!

* Lourdes E. Morales- Gudmundsson è di lingua e letteratura spagnola presso La Sierra University, in California.

Share Button