08 – La realizzazione

ascensioneTratto dal libro “Il ritorno annunciato” di Giovanni Leonardi

«E dette queste cose, mentr’essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d’innanzi agli occhi loro. E come essi avevano gli occhi fissi in cielo, mentr’egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero: Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l’avete veduto andare in cielo» Atti 1:9-11

Una nuova delusione

Immagino la scena. I momenti drammatici erano passati: il Signore era risorto e le lacrime si erano trasformate in sorrisi, lo scoraggiamento in forza, la fiducia era rinata. Erano passati quaranta giorni dalla risurrezione (cfr. Atti 1:3) ed erano stati giorni di festa. Si poteva di nuovo sperare nel regno di Dio: «… Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?» (Atti 1:6).
Il loro amico era nuovamente con loro, pegno di una vittoria totale che speravano vicina. Per loro si profilava però una nuova delusione, non così drammatica come la prima ma pur sempre triste. Già la risposta di Gesù non sembrava promettere una realizzazione rapida della loro speranza: «Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla sua propria autorità». Si preannunciava invece un futuro di lavoro e di testimonianza: «… mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra» (Atti 1:7,8). Ma dovettero soprattutto confrontarsi con una nuova separazione. Mentre Gesù parlava con loro cominciò a essere innalzato verso il cielo finché delle nuvole non lo sottrassero definitivamente alloro sguardo. Non se lo aspettavano e rimasero stupiti a guardare verso l’alto, forse nell’improbabile speranza che il loro amico potesse riapparire. Ma non lo rividero più. I loro occhi rimanevano però fissi verso l’alto incapaci di volgersi verso un nuovo corso della loro vita senza l’amico, il Maestro.

Un ritomo personale

Ancora una volta, tuttavia, i discepoli non furono abbandonati a se stessi. Lo Spirito Santo promesso sarebbe stato con loro (cfr. Atti 1:8). Egli avrebbe spiritualmente mantenuto viva la presenza di Cristo nella loro vita (cfr. Giovanni 16:13,14). In tal modo si sarebbe realizzata la promessa di Gesù di stare con loro fino alla fine dei tempi (cfr. Matteo 28:20). Ma poteva bastare? L’amico vuole vedere veramente l’amico, non contare solo su una presenza testimoniata da altri. L’amico non vuole solo essere pensato e amato, ma vuole toccare e abbracciare come la Maddalena nell’ alba della risurrezione (cfr. Giovanni 20:17).
Lo Spirito avrebbe fatto cose straordinarie per loro, ma la sua presenza sarebbe stata solo una «caparra» delle promesse di Dio che trovano in Cristo che ritorna in gloria la loro piena realizzazione (cfr. 2 Corinzi 1:19-22).
La consolazione venne dagli angeli: «Non rimanete a guardare verso il cielo. Esso non è il baratro che ingoia la vostra speranza ma il luogo che la custodisce fino a quando vi sarà restituita. Questo stesso Gesù che avete visto andare via, un giorno tornerà a voi e lo rivedrete discendere dal cielo. Sia la vostra speranza certa come certa è l’esperienza che avete vissuto vedendolo andare via da voi».
La speranza cristiana non è soprattutto attesa del regno, ma attesa del Re. Se il regno di Dio è desiderabile è perché in esso c’è Gesù, perché esso nasce dall’amore di Gesù. Gesù è al centro della vita e della speranza dei cristiani. Da Cristo, secondo l’apostolo Paolo, scaturisce ogni benedizione: «Colui che non ha risparmiato il suo proprio Figliuolo, ma l’ha dato per tutti noi, come non ci donerà egli anche tutte le cose con lui?» (Romani 8:32).

Il ritorno di Cristo non è…

Se la venuta del regno di Dio è vista al di fuori del ritorno personale di Cristo, allora quello che si attende non è più il regno di Dio promesso nelle Sacre Scritture.
Molti parlano oggi del regno di Dio che si realizza tramite la lotta per la giustizia, condotta da uomini di buona volontà. Gli uomini si devono battere per la giustizia, ma non sarà la loro lotta a
creare il regno di Dio. Anzi, chi si batte per la giustizia con l’intento di creare il regno di Dio, spesso crea solo il regno della violenza e dell’intolleranza.
La nostra lotta deve essere ispirata dall’ amore per il regno di Dio, ma non è ancora il regno di Dio: ne è solo una testimonianza imperfetta e provvisoria.
Molti identificano la venuta del regno di Dio con il momento della conversione a Cristo. Certo! La conversione fa del credente un cittadino del regno di Dio, ma di un regno che non è ancora «di questo mondo» (Giovanni 18:36). La conversione rende presente il regno di Dio, ma solo nel cuore del credente. La cittadinanza celeste è un’esperienza spirituale e non politica. La conversione del credente non fa venire il regno di Dio nel mondo se non per la trasformazione di quella piccola parte del mondo che è la vita stessa del figlio di Dio, trasformazione che si manifesta attraverso i suoi nuovi gesti e le sue nuove parole, gesti e parole che riflettono una realtà diversa. Ma tutto questo è solo una manifestazione del regno di Dio, un raggio di luce che sulla terra testimonia di una luminosità celeste. La terra non è ancora diventata luce. La conversione dell’uomo a Dio lo rende ambasciatore del regno di Dio, ma il regno non è ancora venuto, perlomeno non lo è ancora nella pienezza e nella gloria. Non bisogna confondere il regno di Dio come presenza attuale di Cristo tra e negli uomini (cfr. Matteo 12:28; Luca 17:21) e la presenza del regno come evento finale e risolutore della storia, dell’uomo (cfr. Matteo 16:18). Se lo si fa si corre il rischio di divinizzare l’uomo e si crea un regno a immagine dell’uomo.
Altri identificano l’ingresso nel regno di Dio con il momento della morte, ma questa non è la speranza biblica. La salvezza dell’uomo è legata al ritorno personale di Cristo, «alla sua venuta», dice l’apostolo Paolo (cfr. 1 CorinzÌ 15:23).(1) Sarebbe proprio strano che Gesù parli della sua venuta a noi per intendere il nostro andare a lui.

Un ritomo visibile e glorioso

L’ignoranza sull’insegnamento biblico relativo alla promessa del ritorno di Cristo ha portato molti a diventare preda di false promesse.
Molti credono infatti che Cristo sia ritornato reincarnandosi in un uomo al quale offrono la loro vita in un sacrificio inutile e blasfemo. Altri predicano che la promessa del suo ritorno si è già realizzata in modo invisibile, tranne che per coloro che sanno vederla con gli occhi illuminati dalla fede. Gesù non aveva però insegnato questo.
Egli paragonava la sua venuta a un fulmine che improvvisamente solca il cielo attraversandolo da levante a ponente (cfr. Matteo 24:27). E aveva usato quest’immagine per contrastare l’insegnamento di alcuni che avrebbero annunciato l’avvenuto ritorno del Cristo in luoghi appartati – «nel deserto» o «nelle stanze interne» – lontano dagli occhi del mondo, dove tutti sarebbero stati invitati ad andare a incontrarlo. Gesù non ha lasciato alcuna ombra di dubbio: quando egli ritornerà, non ci sarà bisogno che qualcuno ce lo annunci perché «sarà come il lampo» che tutti vedono.
La fede sarà necessaria per accoglierlo in pace, ma non per vederlo. Gesù parla del dolore che riempirà il cuore delle nazioni mentre «… vedranno il Figliuol dell’uomo venire sulle nuvole del cielo con gran potenza e gloria» (Matteo 24:30). Ma questa non è l’esperienza dei suoi discepoli. La loro sarà un’esperienza di gioia: «In quel giorno, si dirà: “Ecco, questo è il nostro Dio: in lui abbiamo sperato, ed egli ci ha salvati. Questo è l’Eterno in cui abbiamo sperato; esultiamo, rallegriamoci per la sua salvezza!”» (Isaia 25:9). Per vederlo non ci vuole fede: «Ecco, egli viene con le nuvole; ed ogni occhio lo vedrà; lo vedranno anche quelli che lo trafissero» (Apocalisse 1:7).
Gli angeli lo avevano detto al momento dell’ascensione: «… Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l’avete veduto andare in cielo» (Atti 1:11). Allora non lo avevano visto con gli occhi della fede, ma con i loro occhi fisici. Tanto che erano rimasti, stupiti, a guardare in alto anche dopo che il loro Signore era scomparso.
Come all’ascensione Gesù salì al cielo personalmente e visibilmente, così ritornerà: in modo personale e visibile. Ma le circostanze saranno diverse. Quello che all’ascensione fu un avvenimento quasi intimo, assumerà proporzioni cosmiche. Gesù si congedò allora dai suoi pochi discepoli, ma si presenterà un giorno alla sua chiesa e al mondo «con gran potenza e gloria» insieme ai suoi angeli che manderà «con gran suono di tromba a radunare isuoi eletti dai quattro venti, dall’un capo all’altro dei cieli» (Matteo 24:30,31).
Il giorno del ritorno di Cristo non sarà un giorno di tristezza ma di esaltazione. Un giorno venne per offrirsi in sacrificio, ma noi lo vedremo quale re vittorioso (cfr. Apocalisse 19:11-16).

Il giorno della mietitura

Gesù è venuto una prima volta per mostrare la grandezza del suo amore. Tornerà per raccoglierne i frutti. Un giorno venne per seminare, allora verrà per mietere: «E vidi ed ecco una nuvola bianca; e sulla nuvola assiso uno simile a un figliuol d’uomo, che aveva sul capo una corona d’oro, e in mano una falce tagliente. E un altro angelo uscì dal tempio, gridando con gran voce a colui che sedeva sulla nuvola: Metti mano alla tua falce e mieti; poiché l’ora di mietere è giunta, perché la messe della terra è ben matura. E colui che sedeva sulla nuvola lanciò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta»(Apocalisse 14:14-16). «Ben va piangendo» dice un antico salmo «colui che porta il seme da spargere, ma tornerà con canti di gioia quando porterà i suoi covoni» (Salmo 126:6). Allora spero, per grazia di Dio, di essere spiga tra questi covoni che gli angeli di Cristo raccoglieranno per conservarli nel suo regno (cfr. Matteo 13:24-30).

Il giorno della risurrezione

Quello sarà anche il giorno del grande incontro tra i vivi e i morti perché sarà il giorno della risurrezione.
A Marta, la sorella di Lazzaro, affranta per la morte del fratello, Gesù ricordò la promessa della risurrezione: «Tuo fratello risusciterà». E Marta, partecipe della speranza comune d’Israele rispose: «Lo so che risusciterà, nella risurrezione, nell’ultimo giorno» (Giovanni 11:23,24). Marta non poteva ancora sapere che quest’ultimo giorno sarebbe stato quello del ritorno del suo amico. Ma lo sapeva molto bene l’apostolo Paolo: «perché il Signore stesso, con potente grido, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e i morti in Cristo risusciteranno i primi» (1 Tessalonicesi 4:16).
La vittoria sulla morte si accompagnerà alla vittoria su tutte le conseguenze del male. Sarà la natura stessa e l’esistenza dell’uomo ad essere cambiata: «Ecco, io vi dico un mistero: Non tutti morremo, ma tutti saremo mutati, in un momento, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Perché la tromba suonerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo mutati. Poiché bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità, e che questo mortale rivesta immortalità» (1 Corinzi 15:51-53).
Si comprende dunque perché il giorno del ritorno di Cristo sia così determinante nella fede cristiana. Paolo, di fronte alla prospettiva della sua morte imminente, pone nell’arrivo di questo giorno la sua speranza di vita: «Quanto a me» scriveva al suo caro Timoteo «io sto per essere offerto a mo’ di libazione, e il tempo della mia dipartenza è giunto. lo ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbata la fede; del rimanente mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione» (2 Timoteo 4:6-8).

Il giorno del grande incontro

La vittoria della vita sulla morte non avviene giorno dopo giorno, generazione dopo generazione. Non è un’esperienza individuale ma collettiva. Abbiamo già visto che il giorno del ritorno di Cristo è descritto come un giorno di mietitura. Altrove Gesù usa l’immagine della pesca, ma non è mai una pesca all’amo. Si tratta invece di una pesca con la rete che solo «quando è piena» viene tratta a riva dai pescatori come avverrà per gli uomini «alla tìne dell’età presente» (Matteo 13:47-49). «Gli angeli» dice Gesù «andranno a radunare gli eletti».
In quel giorno nessuno mancherà perché «Ì morti in Cristo risusciteranno i primi» ma, aggiunge l’apostolo, «poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo insieme con loro rapiti sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre col Signore» (1 Tessalonicesi 4:16,17). I martiri che hanno versato il loro sangue sull’altare di questo mondo sono descritti nell’Apocalisse come grandemente desiderosi dell’arrivo del giorno della giustizia. Ma, nonostante la loro impazienza, sono invitati ad aspettare: «E a ciascuno d’essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo, finché fosse completo il numero dei loro conservi e dei loro fratelli…» (Apocalisse 6:11).
Sarà allora il momento del grande incontro, del ristabilimento dei legami spezzati, della vittoria sulla solitudine. Sarà il giorno degli abbracci dopo le tante separazioni che hanno costellato la nostra vita e quella del mondo.

Un giorno di tristezza

La gioia di quel giorno non sarà tuttavia completa. Insieme ai canti di gioia si eleveranno anche grida di dolore. Il giorno del grande incontro sarà anche un giorno di dolorose separazioni: «Allora due saranno nel campo: l’uno sarà preso e l’altro lasciato; due donne macineranno al mulino: l’una sarà presa e l’altra lasciata» (Matteo 24:40,41). L’offerta della salvezza è universale: «Poiché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figliuolo, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» (Giovanni 3:16). Universale non è però l’accettazione della salvezza offerta. Allora le nostre scelte avranno il loro compimento finale: «Uno sarà preso e l’altro lasciato». Non dipende dall’amore di Dio, ma dalla nostra volontà di rispondere al suo amore. La tristezza di coloro che saranno stati lasciati sarà anche la tristezza del loro Dio e dei loro fratelli. Perché la tristezza possa cedere il posto alla gioia, Dio rinnova continuamente il suo antico appello: «Gettate lungi da voi tutte le vostre trasgressioni per le quali avete peccato, e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo; e perché morreste, o casa d’Israele? Poiché io non ho alcun piacere nella morte di colui che muore, dice il Signore, l’Eterno. Convertitevi dunque, e vivrete!>, (Ezechiele 18:31,32).

Un giorno di giudizio

Il ritorno di Cristo sarà anche un giorno di giudizio. Questo non è un concetto gradito al cuore dell’uomo d’oggi che ama maggiormente parlare di libertà o di tolleranza. Un Dio che giudica sembra invece il segno dell’intolleranza e della negazione della libertà. In un contesto come il nostro, in cui anche una parola straordinaria come «amore» viene inflazionata, abusata e inquinata, !’idea del giudizio sembra una stonatura.
Frasi come «Dio vede e comprende» possono esprimere la consapevolezza della misericordia di Dio, ma spesso vengono dette per esprimere l’abbandono irresponsabile alle proprie debolezze se non alla propria determinazione di fare il male perché tanto alla fine Dio si commuove sempre e perdona. Alla fine Dio perdonerà tutti, dice anche qualche grande teologo, e molti sono quelli che si lasciano convincere da queste affermazioni.
Ma il testo biblico non dice così: «Iddio dunque, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, fa ora annunziare agli uomini che tutti, per ogni dove, abbiano a ravvedersi, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia, per mezzo dell’uomo che Egli ha stabilito; del che ha fatto fede a tutti, avendolo risuscitato dai morti» (Atti 17:30,31). TI giorno della parusia del Cristo è anche il giorno della manifestazione del giudizio di Dio: «Ora quando il Figliuolo dell’uomo sarà venuto nella sua gloria, avendo seco tutti gli angeli, allora siederà sul trono della sua gloria. E tutte le genti saranno radunate dinanzi a lui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri» (Matteo 25:31,32).
Abbiamo bisogno di un giudizio, cioè che Dio esprima in modo definitivo e risolutivo il suo parere sulla grande questione del bene e del male? Ne hanno certamente bisogno tutti coloro che hanno innocentemente subito l’ingiustizia dei prepotenti: il sangue degli innocenti sparso sulla superficie di una terra diventata altare di innumerevoli vittime, diventa un grido che si eleva a Dio: «Fino a quando, o nostro Signore che sei santo e verace, non fai tu giudizio…?» (cfr. Apocalisse 6:10). Ma ne hanno bisogno gli stessi prepotenti che devono sapere che il male alla fine non paga. Ne hanno bisogno tutti gli uomini che sognano una vita più bella, liberata dal male e dalla sofferenza. Ne ha bisogno Dio stesso che vede distrutti dal male quel creato e quella vita dei quali, alla fine della creazione, aveva potuto dire «tutto è molto buono» (cfr. Genesi 1:31). «Poiché sappiamo che fino ad ora tutta la creazione geme insieme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche… noi stessi gemiamo in noi medesimi, aspettando…» (Romani 8:22,23). Dal momento del primo peccato con le sofferenze che ha comportato, la vita è diventata una continua attesa, attesa di liberazione, di pace, di restaurazione del paradiso perduto. È stata per tanti un lunghissimo ritorno a casa attraverso terre straniere, terre amate, certo, ma non nostre! Come Abramo che viveva sotto le tende, straniero e pellegrino «aspettando la città che ha i veri fondamenti e il cui architetto e costruttore è Dio» (Ebrei 11:9,10).
Ma perché tutto questo si realizzi, Dio dovrà dire basta al male, dovrà giudicare. Il giudizio di Dio non è il segno della fine del suo amore, ma una sua manifestazione coerente. Se Dio tacesse per sempre e sopportasse per sempre la prepotenza dei malvagi, diventerebbe egli stesso loro complice.
Dio ama quando lascia che suo Figlio Gesù dia la sua vita per la salvezza del mondo (cfr. Giovanni 3:16). E continua ad amare anche quando dice basta alla prospettiva di una eternità di morte per tutti.
Il giudizio di Dio è il segno dell’importanza, della libertà e della responsabilità che egli attribuisce all’uomo. Non si giudica il cane che morde, ma si giudica il padrone che non gli ha messo la museruola. L’uomo è grande perché è libero e responsabile. Pur con tutti i suoi condizionamenti personali e sociali, le sue debolezze e la sua ignoranza, l’uomo mantiene la sua capacità morale di indirizzarsi al bene o al male e di questo è responsabile e per questo Dio lo giudicherà. Sarà anzi proprio da Gesù che ognuno ascolterà la sua sentenza, da quello stesso Gesù che, salito sulla croce, non potrà essere accusato da nessuno di essere un prepotente ingiusto nel momento in cui tornerà dal cielo «per giudicare e guerreggiare con giustizia» (Apocalisse 19:11; cfr. Atti 10:42).

NOTE:
(1) Un’eccellente rassegna delle varie interpretazioni del regno di Dio che sono state avanzate nel corso dei secoli, da quelle religiose a quelle umanistiche, si trova in Vittorio Subilia, Il regno di Dio. Interpretazioni nel corso dei secoli, a cura di Gino Conte, Claudiana, Torino, 1993.

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