06 – La grazia che riconcilia

Dobbiamo rinunciare a noi stessi e rivolgerci a Gesù

0606044Mervyn Warren(1)

Dopo circa trent’anni di insegnamento ho collezionato espressioni particolari utilizzate dagli studenti per sottolineare momenti difficili. Quando uno studente americano riceve un brutto voto ha l’abitudine di esclamare: «Have mercy!» (Misericordia! o Abbiate pietà di me! ndt).
Mentre le espressioni possono variare, secondo le circostanze, rimane chiara una verità fondamentale per ognuno di noi: se siamo nati da un uomo e da una donna, e partecipiamo al cosiddetto viaggio della razza umana, dobbiamo accettare di essere limitati. In definitiva la grazia è la nostra unica speranza.

Chi ne ha bisogno?

Non tutte le persone provano il desiderio di essere comprese, ma molti hanno bisogno di essere valorizzati. Cerchiamo approvazione e gratificazione perché non ci basta essere soddisfatti personalmente del nostro operato, vogliamo anche essere certi che sia migliore di quello degli altri.
Gesù indica questi meccanismi nella parabola di Luca 18:9-14. Descrive due tipi di persone che possiamo ritrovare anche oggi nella chiesa. Il primo era un membro orgoglioso, che si vantava: «…O Dio, ti ringrazio ch’io non sono come gli altri uomini…» (v. 11). Il secondo, molto più modesto, diceva: «… O Dio, sii placato verso me peccatore!» (v. 13). Affrontando apertamente uno dei classici problemi umani, Gesù ci avverte che spesso ci consideriamo «troppo bravi» davanti al Signore.
Un mio amico era un grande giocatore di golf. Un giorno stava giocando: colpiva la palla con precisione e i suoi tiri erano sempre nella norma, ma senza impegnarsi al massimo delle sue possibilità. A un certo punto però, come molti di noi quando si sentono sicuri di essere bravi, commise un errore fatale. Nel momento decisivo della partita si espresse con arroganza, tanto che il suo istruttore fu costretto a rispondergli: «Penso che non ci sia più nulla che io possa fare per lei». Cosa accadde? Le lezioni cessarono. La bravura del mio amico svanì a poco a poco e ora, quando gioca, si intravedono solo a tratti le sue brillanti qualità. Egli aveva raggiunto il livello in cui l’eccesso di bravura può diventare pericoloso. La stessa cosa si verifica nella nostra vita spirituale! Non impareremo mai che anche quando ci esprimiamo al massimo delle nostre possibilità rimaniamo molto al di sotto del livello al quale Dio ci vuole portare? Non ci sono sempre degli spazi per migliorare o delle nuove mete da raggiungere? Davanti alle nostre vittorie e ai nostri progressi continuiamo «… il corso verso la meta per ottenere il premio della superna vocazione di Dio in Cristo Gesù (Filippesi 3:14). Dobbiamo controllare ogni inclinazione all’orgoglio ed essere sempre pronti, grazie ai meriti del nostro Salvatore, ad accostarci «… al trono della grazia, affinché otteniamo misericordia e troviamo grazia per esser soccorsi al momento opportuno» (Ebrei 4:16).

Gesù sceglie il tempio

Torniamo alla parabola di Luca 18. Al versetto 10 Gesù ambienta la storia nel santuario: «Due uomini salirono al tempio per pregare…». Il tempio, piuttosto che una sinagoga, è un dettaglio significativo, probabilmente voluto da Gesù. Molte sinagoghe, situate in varie città, rappresentavano il luogo in cui gli ebrei si riunivano per leggere e commentare le Scritture. Il tempio, o santuario, occupava comunque un posto importante nella liturgia e nella vita ebraica perché solo in quel luogo venivano offerti i sacrifici, che profetizzavano del Calvario e di Cristo. Poiché il soggetto di questa parabola è l’adorazione pubblica nel santuario e poiché non viene citata nessuna festività, possiamo collocare l’evento nelle ore pomeridiane, in occasione del sacrificio quotidiano dell’agnello, immolato davanti a tutti gli adoratori compresi il pubblicano e il fariseo. Entrambi avevano visto lo stesso sacrificio, lo stesso agnello offerto per i loro peccati. Entrambi avevano partecipato allo stesso servizio di adorazione. Ma ognuno aveva risposto in modo diverso.

L’egocentrismo e il santuario

Il fariseo guarda l’agnello del sacrificio – cioè considera il piano di Dio per i peccatori perduti – ma invece di scorgere il suo Salvatore, vede solo le proprie opere e le sventure degli altri. Anche il termine greco che è stato tradotto con «stando in piè» in Luca 18:11 suggerisce che durante questo servizio del tempio egli era in piedi per manifestare il proprio orgoglio, forse con ostentazione, in una posizione che rivela autocompiacimento: il capo buttato indietro, il naso all’insù, gli occhi che guardano obliquamente, le braccia sui fianchi e Dio… nella tasca posteriore.
Poi prega (o per meglio dire grida) e dichiara (o per meglio dire si esalta), suona la tromba e pronuncia queste parole: «… O Dio, ti ringrazio ch’io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; né pure come quel pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quel che posseggo» (vv. 11,12).
A questo punto Gesù offre un modello migliore. Iniziando dal versetto 13, la parabola assume un tono diverso, una svolta imperniata sulla parola «ma»: «Ma il pubblicano…».
Anche se alcune versioni della Bibbia traducono «E il pubblicano…», il ritmo della storia impone un contrasto fra il primo adoratore e il secondo.
«Ma il pubblicano, stando da lungi, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: O Dio, sii placato verso me peccatore!» (v. 13).
Per il fariseo la chiesa è un diritto, per il pubblicano è un privilegio. Il fariseo si ergeva con fierezza, il pubblicano aveva uno spirito profondamento contrito. Il fariseo vantava tutti i meriti, ma gli mancava ciò che conta veramente. Il pubblicano non ne aveva alcuno, ma possedeva quello più importante. Il fariseo dimostrava una grande religiosità, ma poco cristianesimo. Il pubblicano non praticava le forme della religione, ma aveva un atteggiamento profondamente cristiano.
Ellen G. White in Christ’s Object Lessons (Parole di vita, cap. Un segno di vera grandezza, ndt) utilizza questi termini per descrivere il primo adoratore: self-praise (autoincensarsi), self-satisfaction (autocompiacimento), self-esteem (amor proprio), self-trust (autostima), self-confidence (sicurezza di sé), self-sufficiency (autosufficienza), self-glorification (trionfalismo), self-love (egoismo).
Un’unica espressione caratterizza invece il secondo adoratore: «La rinuncia a se stesso». Al tempio parteciparono entrambi allo stesso sacrificio. Uno vide solo se stesso, l’altro vide il Salvatore. Che cosa vediamo noi quando ci riuniamo nella casa di Dio?

Contemplando il propiziatorio

Quando il pubblicano pregò: «O Dio, sii placato verso me peccatore!», egli stava aspirando a un tipo diverso di misericordia che si può ritrovare in alcuni dei ben noti testi: «Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta» (Matteo 5:7); oppure «Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore del quale ci ha amati» (Efesini 2:4); o «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, affinché otteniamo misericordia e troviamo grazia per esser soccorsi al momento opportuno» (Ebrei 4:16). Il termine greco eleos, tradotto in questi versetti con «misericordia», descrive un tipo di misericordia che si riveste di simpatia, compassione e comprensione.
Ma il pubblicano ricerca qualcosa di più profondo in Luca 18:13. Contemplando il sacrificio dell’agnello per i suoi peccati, nel cortile del tempio, usa un vocabolo diverso da eleos. Nella sua esclamazione utilizza hilastérion, tradotto «misericordia» da alcuni, ma poiché è un termine tipico del santuario probabilmente sarebbe stato meglio utilizzare la voce «espiazione»: «Signore, compi l’espiazione per me» avrebbe detto in realtà il pubblicano. Paolo utilizza lo stesso termine in Romani 3:24,25: «… giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù, il quale Iddio ha prestabilito come propiziazione [hilastérion] mediante la fede nel sangue d’esso…» oppure «Dio lo ha esposto pubblicamente come propiziatorio» (NV ed. Paoline). L’espressione del pubblicano è usata anche da Giovanni quando ci assicura che qualcuno parla in nostra difesa al Padre, cioè Cristo Gesù, che è «… la propiziazione [hilastérion] per i nostri peccati…» (1 Giovanni 2:2).
Risalendo all’etimologia usata nella preghiera del pubblicano scopriamo che è lo stesso vocabolo a cui ricorre la Septuaginta (la traduzione dell’Antico Testamento in greco) per il sostantivo ebraico kapporeth, che significa «coperchio, copertura del patto» o «propiziatorio». Il pubblicano sta cercando la riconciliazione e prega: «O Dio, compi l’espiazione per i miei peccati coprendomi con il tuo propiziatorio».
Che cos’è il propiziatorio? Quando Dio ispirò l’architettura del primo santuario terreno, nella seconda stanza, o luogo santissimo, si trovava l’arredo più sacro del santuario, cioè l’arca del patto (cfr. Esodo 25:17-22). L’arca conteneva i dieci comandamenti di Dio. «Il coperchio di quest’arca – spiega E.G. White – venne chiamato propiziatorio per illustrare che se la morte era la punizione per la trasgressione della legge, la misericordia assicurava, tramite Gesù Cristo, il perdono dei peccatori pentiti. L’unica speranza per tutti gli uomini passava tramite Gesù Cristo, che offriva l’abito della giustizia al peccatore che avesse voluto abbandonare i suoi vestiti sporchi».(2)
Quando siete davanti a Dio, guardando Cristo, non prendete in considerazione le vostre buone opere, che non vi permettono di entrare nel regno di Dio. Solo la giustizia di Cristo può salvarci.
Vi siete resi conto di essere dei peccatori, separati da Dio, che non hanno mai raggiunto la pienezza del proprio potenziale spirituale? Vi raccomando di accettare la grazia riconciliante di Dio, il suo amore illimitato, che coinvolge e trasforma tutti. Presentatevi davanti al propiziatorio e inginocchiatevi pregando con fervore.

NOTE:
(1) Responsabile del dipartimento di religione dell’Oakwood College, Huntsville, Alabama.
(2) E.G. White, Youth’s Instructor, 18 agosto 1886.

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