04 – La natura della morte

La morte di Socrate e la morte di Cristo

tombePer illustrare il concetto biblico della morte, Oscar Cullmann mette in contrasto la morte di Socrate con quella di Gesù.1 Nel Fedone, Platone fa una descrizione impressionante della morte di Socrate. Nel giorno della sua condanna a morte, Socrate insegna ai suoi discepoli la dottrina dell’immortalità dell’anima, mostrando come vivere quel convincimento personale. Spiega quanto sia importante liberare l’anima dalla prigionia del corpo tramite l’accettazione delle verità eterne della filosofia.

Dal momento che la morte compie il processo della liberazione dell’anima, Platone racconta, che Socrate ha bevuto la cicuta in pace e in compostezza. Per Socrate, la morte era la miglior amica dell’anima perché la liberava dalle catene del corpo. Quanto è stato diverso l’atteggiamento di Gesù! Alla vigilia della sua morte nel Getsemani, Gesù è stato «spaventato e angosciato» (Mc 14:33) e non si è vergognato di condividere i suoi sentimenti con i suoi discepoli, dicendo: «L’anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate» (Mc 14:34). Per Gesù, la morte mantiene tutto il suo orrore, è la terribile nemica che lo avrebbe separato dal Padre. Egli non ha affrontato la morte con la sublime serenità di Socrate, anzi quando è stato confrontato con la sua dura realtà ha gridato: «Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi» (Mc 14:36).

Gesù sapeva che morire significava essere separato da Dio. Per questo ha gridato a Dio, perché non voleva essere abbandonato dal Padre e persino dai suoi discepoli. Che contrasto tra Socrate e Gesù nella loro comprensione ed esperienza della morte!

Oscar Cullmann osserva: «L’epistola agli Ebrei, che più di ogni altro scritto del Nuovo Testamento sottolinea la piena divinità (Eb1:10), ma anche la piena umanità di Gesù, nella sua descrizione dell’angoscia di Gesù di fronte alla morte oltrepassa le narrazioni sinottiche. Ci viene detto che Gesù “offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà” (Eb 5:7). Dunque secondo l’epistola agli Ebrei Gesù ha gridato e pianto di fronte alla morte. Da una parte Socrate che con calma e serenità parla dell’immortalità dell’anima; dall’altra Gesù che grida e piange».2

Il contrasto è evidente, Socrate ha bevuto la cicuta con calma sublime, Gesù ha gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15:34). Questa non è «l’amica morte», ma è la nemica. Paolo, dopo aver annunciato la risurrezione, conclude che la morte sarà «l’ultimo nemico» (1 Cor 15:26), che alla fine sarà gettato nello stagno di fuoco (Ap 20:14).

Se la morte avesse liberato l’anima dal corpo così da rendere possibile un’immediata comunione con Dio, allora anche Cristo l’avrebbe accolta a braccia aperte per gioire della comunione con il Padre. Gesù, invece, ha sentito la morte come una separazione da Dio, datore della vita e Creatore di ogni esistenza. Egli ha sofferto più di ogni altro essere umano, perché era strettamente legato a suo Padre. Gesù ha sperimentato la morte in tutto il suo orrore, nel corpo e in tutta la sua persona (cfr. Mt 27:46).

Il contrasto tra la morte di Socrate e quella di Cristo permette di comprendere il concetto biblico della morte. Nel pensiero greco, la morte della materia deve essere considerata un bene perché viene distrutto ciò che è malvagio, ma la distruzione del corpo non costituisce in alcun senso la perdita della vera vita. Nel pensiero biblico, anche la morte del corpo implica la rovina della vita creata da Dio. «Per questo non il corpo ma la morte va vinta dalla risurrezione».3

Ecco la ragione del perché la risurrezione è fondamentale per la fede cristiana. Essa è la garanzia che la morte è stata sconfitta e che coloro che accettano la morte di Cristo e hanno fede in lui possono ottenere la vita eterna. Oscar Cullmann continua: «La fede nell’immortalità dell’anima non è una fede in un avvenimento che rovescia tutto. L’immortalità in fondo è solo un’affermazione negativa: l’anima  non muore (continua semplicemente a vivere). Risurrezione è un’affermazione positiva: l’uomo intero, realmente morto, è richiamato alla vita con un nuovo atto creatore di Dio. Avviene l’inaudito! Un miracolo creatore. Perché prima è avvenuta ugualmente una realtà orribile: è stata distrutta una vita creata da Dio».4

Il peccato e la morte

Per capire l’insegnamento biblico sulla morte, bisogna ritornare al racconto della creazione dove la morte è presentata, non come un processo naturale voluto da Dio, ma come qualcosa di innaturale contrario a Dio. Il racconto della Genesi insegna che la morte è entrata nel mondo dopo il peccato. Dio ha ordinato ad Adamo di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male e ha aggiunto questo avvertimento: «Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (Gn 2:17). Il fatto che Adamo ed Eva non siano morti nel giorno della loro trasgressione, ha condotto alcuni a concludere che gli esseri umani di fatto non muoiono perché sono in possesso di un’anima cosciente che sopravvive alla morte del corpo.

Quest’interpretazione metaforica difficilmente può essere sostenuta perché, se tradotto letteralmente, il testo dice: «morendo, morirete». Ciò che Dio ha semplicemente inteso dire è che nel giorno in cui avessero disubbidito, il processo di morte sarebbe iniziato. Da una situazione nella quale era per loro possibile non morire (immortalità condizionata), sono passati a uno stato nel quale era per loro impossibile non morire (mortalità incondizionata). Prima della caduta, l’assicurazione dell’immortalità era concessa dall’albero della vita. Dopo la caduta, Adamo ed Eva non hanno più avuto accesso a esso (Gn 3:22,23) e, di conseguenza, hanno dovuto sperimentare la realtà del processo di morte. Nella visione profetica della nuova terra, l’albero della vita si trova ad ambedue i lati del fiume come simbolo del dono della vita eterna donata ai redenti (Ap 21:2).

La dichiarazione che si trova in Genesi 2:17 stabilisce un chiaro rapporto fra la morte umana e la trasgressione del comandamento di Dio. Quindi, la vita e la morte nella Bibbia hanno un significato religioso ed etico perché dipendono dall’ubbidienza o dalla disubbidienza dell’uomo nei confronti di Dio. L’insegnamento fondamentale della Bibbia è chiaro: la morte è entrata in questo mondo quale risultato della disubbidienza umana (cfr. Rm 5:12; 1Cor 15:21). Tutto ciò, però, non diminuisce la responsabilità dell’individuo per la propria partecipazione al peccato (Ez 18:4,20). La Bibbia comunque fa distinzione fra la prima morte, che ogni essere umano sperimenta come risultato del peccato d’Adamo (cfr. Rm 5:12; 1Cor 15:21), e la seconda morte che avverrà dopo la risurrezione (Ap 20:6) come castigo per i peccati commessi (Rm 6:23).

La morte come separazione dell’anima dal corpo

Un argomento che non può più essere rinviato è questo: la morte è la separazione dell’anima immortale dal corpo mortale? Oppure è la cessazione dell’esistenza dell’intera persona, corpo e anima? Storicamente, la tradizione cristiana considera la morte una separazione dell’anima immortale dal corpo mortale, come se l’anima potesse sopravvivere al corpo senza alcuna forma. Per esempio, il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica afferma: «Con la morte, separazione dell’anima e del corpo, il corpo dell’uomo cade nella corruzione, mentre la sua anima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere riunita al suo corpo glorificato».5

Augustus Hopkins Strong, in Teologia sistematica, definisce la morte in termini simili: «La morte fisica è la separazione dell’anima dal corpo, distinta dalla morte spirituale che è la separazione dell’anima da Dio».6

Henry Clarence Thiessen, teologo calvinista, in Lectures in Systematic Theology (un manuale molto diffuso) si esprime più o meno in modo analogo: «La morte fisica concerne il corpo; l’anima è immortale e come tale non può morire».7

Francis Pieper, teologo luterano, ribadisce molto chiaramente la visione storica: «La morte temporanea non è altro che il lacerarsi degli uomini, la separazione dell’anima dal corpo, la rottura innaturale dell’unione dell’anima e del corpo che sono stati creati da Dio per essere uno».8

Affermazioni come queste possono essere moltiplicate, dal momento che si trovano nella maggior parte dei manuali di teologia sistematica e nelle più importanti dichiarazioni di fede. La posizione storica circa la natura della morte come separazione dell’anima dal corpo è messa in discussione da molti studiosi moderni. Sarà sufficiente, esaminare il pensiero di alcuni per sottolineare questo aspetto. Il teologo luterano Paul Althaus scrive: «La morte è più di una partenza dell’anima dal corpo. La persona, corpo e anima, è coinvolta nella morte… La fede cristiana ignora completamente l’immortalità della persona umana… Sa solo di un risveglio dalla morte reale mediante la potenza di Dio. L’esistenza dopo la morte è data solo attraverso il risveglio dell’intera persona alla risurrezione».9

Paul Althaus sostiene che la dottrina dell’immortalità dell’anima non renda giustizia alla serietà della morte dal momento che l’anima passa illesa attraverso la morte.10  Inoltre, la nozione che una persona possa essere completamente felice e beata senza il corpo nega il valore del corpo e svuota la risurrezione del suo significato.11

Se i credenti sono già beati nel cielo e gli empi sono già tormentati nell’inferno, perché è ancora necessario il giudizio finale?».12 Paul Althaus giunge alla conclusione che la dottrina dell’immortalità dell’anima arreca una separazione in un insieme indivisibile: il corpo e l’anima, il destino dell’individuo e quello del mondo.13

Nel suo libro Il corpo, John A. T. Robinson afferma: «L’anima non sopravvive all’uomo, essa semplicemente esce, prosciugandosi con il sangue».14

Nella sua monografia Life after Death, Taito A. Kantonen fa questa pungente affermazione: «L’insegnamento cristiano della morte è in pieno accordo con quello della scienza naturale, le due posizioni combaciano. Quando moriamo siamo veramente morti. Le nostre speranze e i nostri desideri non possono cambiare questo fatto. L’uomo non differisce da tutto il resto della creazione solo perché pensa di avere un’anima immortale».15

Perfino il liberale Interpreter’s Dictionary of the Bible, nel suo articolo sulla morte afferma chiaramente: «La “dipartita” del nefesh (anima) deve essere vista come un traslato, poiché non continua a esistere indipendentemente dal corpo, ma muore con esso (cfr. Nm 31:19; Gdc 16:30; Ez 13:19). Nessun testo biblico autorizza l’affermazione che “l’anima” si separi dal corpo nel momento della morte. Il ruach (spirito) che fa dell’uomo un essere vivente (Gn 2:7), e che perde alla morte, non è, specificamente parlando, una realtà antropologica, ma un dono di Dio, che a lui ritorna al momento della morte (Ec 12:7)».16

The International Standard Bible Encyclopaedia riconosce che siamo sempre più o meno influenzati dall’idea greca e platonica secondo la quale se anche il corpo muore, l’anima, da parte sua, continua a vivere. Questa idea è assolutamente contraria al concetto ebraico e non si trova in nessuna parte dell’Antico Testamento. L’uomo muore nella sua totalità, quando alla morte, lo spirito (cfr. Sal 146:4; Ec 12:7) o l’anima (cfr. Gn 35:18; 2 Sam 1:9; 1 Re 17:21; Gv 4:3) lascia l’uomo. Non solo il suo corpo, ma anche la sua anima ritorna a uno stato di morte e appartiene al mondo inferiore; per questo l’Antico Testamento può parlare della morte dell’anima di un individuo (cfr. Gn 37:21; Nm 23:10; Dt 22:21; Gdc 16:30; Gb 36:14; Sal 78:50)».17

Questa sfida lanciata dal pensiero moderno all’opinione tradizionale della morte come separazione dell’anima dal corpo, era attesa da tempo. È difficile credere come, per la maggior parte della sua storia, il cristianesimo abbia mantenuto più o meno il concetto della morte e del destino umano fortemente condizionato dal pensiero greco, piuttosto che dagli insegnamenti della Scrittura. Quello che è persino più sorprendente è che nessun tentativo serio di ricerca biblica porterà a mutare la convinzione tradizionale circa lo stato intermedio sostenuta dalla maggior parte delle chiese. La ragione è semplice. Mentre gli studiosi, presi individualmente, possono cambiare le loro posizioni dottrinali senza soffrire conseguenze devastanti, lo stesso non è vero per le chiese. Una chiesa che introducesse cambiamenti radicali nelle proprie convinzioni dottrinali e storiche minerebbe la fede dei propri membri e quindi la stabilità stessa dell’istituzione. Un caso emblematico è costituito dalla Chiesa mondiale di Dio che ha perso più della metà dei suoi membri quando nel 1995 i responsabili hanno introdotto dei cambiamenti dottrinali. L’alto prezzo richiesto per correggere convinzioni religiose denominazionali, potrebbe incoraggiare quei credenti a mantenere dottrine fondate sulla tradizione, piuttosto che cercare una comprensione più vicina agli insegnamenti della Parola di Dio su questioni primarie della vita.

La fine della vita

Quando si cerca nella Bibbia una descrizione intorno alla natura della morte, si trovano chiarissime affermazioni che hanno bisogno di poca o nessuna interpretazione. In primo luogo, la Scrittura descrive la morte come un ritorno agli elementi dai quali l’uomo è stato originariamente  creato. Nel pronunciare la sua sentenza su Adamo dopo la disubbidienza, Dio disse: «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn 3:19). Il testo dice che la morte non è la separazione dell’anima dal corpo, ma è la conclusione della vita, come risultato del decadimento e della decomposizione del corpo. «Dal momento che l’uomo è creato con la materia deperibile, la sua condizione naturale è la mortalità (Gn 3:19)».18

Uno studio delle parole «morire», «morte» e «morti» in ebraico e in greco rivela che la morte è percepita nella Bibbia come la privazione o la cessazione della vita. La parola comunemente utilizzata in ebraico per «morire» è muth e si trova nell’Antico Testamento più di 800 volte.

Nella maggioranza dei casi muth è usata tanto per la morte degli uomini quanto per quella degli animali. Non c’è nessun cenno di distinzione fra i due tipi di morte. Un chiaro esempio si trova in Ecclesiaste 3:19: «la sorte dei figli degli uomini è la sorte delle bestie». L’ebraico muth (morire) è a volte usato in modo metafisico per indicare la distruzione o l’eliminazione d’una nazione (cfr. Is 65:15; Os 2:3; Am 2:2), d’una tribù (cfr. Dt 33:6; Os 13:1), o di una città (2 Sam 20:19). Nessuno di questi usi metaforici sostiene l’idea della sopravvivenza individuale. Al contrario, la parola muth (morire) è usata in Deuteronomio 2:16 parallelamente a taman, che significa «consumare» o «finire». Il parallelismo suggerisce che la morte è vista come la fine della vita.

Il verbo «morire» (apothanein) usato 77 volte nel Nuovo Testamento, tranne poche eccezioni, indica la cessazione della vita. Le eccezioni introducono in gran parte delle metafore che, però, dipendono  dal significato letterale. Per esempio, Paolo dice: «Siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono» (2Cor 5:14). Evidentemente non fa riferimento alla morte fisica, ma agli effetti della morte di Cristo nella vita del credente davanti a Dio. Si potrebbe tradurre «perciò tutti sono morti» come «perciò tutti sono considerati come morti». Nessun uso letterale e metaforico dell’ebraico muth o del greco apothanein suggeriscono che «l’anima» o lo «spirito» sopravvivano alla morte dell’individuo.

La descrizione della morte nelle Scritture ebraiche

Per spiegare il significato e la natura della morte, i verbi utilizzati in ebraico e in greco per «morire» non sono sufficienti se non per indicare che la morte degli uomini è identica a quella degli animali. Più chiaro è l’uso del sostantivo ebraico maveth utilizzato circa 150 volte e tradotto generalmente «morte» da cui traiamo tre aspetti fondamentali riguardo la natura della morte.

Primo, nella morte non esiste una memoria del Signore: «Poiché nella morte (maveth) non c’è memoria di te; chi ti celebrerà nel soggiorno dei morti (sheol)?» (Sal 6:5). La ragione per l’assenza della memoria è semplicemente dovuta al fatto che il processo dei pensieri si ferma quando il corpo e il cervello arrestano le loro funzioni. «Il suo fiato se ne va, ed egli ritorna alla sua terra; in quel giorno periscono i suoi progetti» (Sal 146:4). Siccome alla morte «periscono i progetti», è evidente che nessuna anima consapevole sopravviva alla morte. Se il processo dei pensieri, che è generalmente associato all’anima, sopravvivesse alla morte del corpo, allora i pensieri dei figli di Dio non perirebbero. Essi sarebbero capaci di ricordare Dio. Il fatto però è che «i viventi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla» (Ec 9:5).

Secondo, dal soggiorno dei morti non sale a Dio alcuna lode. «Che profitto avrai dal mio sangue s’io scendo nella tomba? Potrebbe la polvere celebrarti, predicare la tua verità?» (Sal 30:9). Paragonando la morte alla polvere, il salmista mostra chiaramente che non esiste consapevolezza alcuna nella morte perché la polvere non può pensare. Lo stesso pensiero è espresso nel Salmo 115:17: «Non sono i morti che lodano il SIGNORE, né alcuno di quelli che scendono nella tomba». Qui il salmista descrive la morte come uno stato di «silenzio». Quale contrasto con la «rumorosa» visione popolare della vita dove i santi lodano Dio nel cielo e gli empi gridano nell’agonia dell’inferno! Terzo, la morte è descritta come un «sonno». «Guarda, rispondimi, o SIGNORE, mio Dio! Illumina i miei occhi perché io non m’addormenti del sonno della morte» (Sal 13:3).

La descrizione della morte come «sonno» ritorna frequentemente nell’Antico e nel Nuovo Testamento perché essa rappresenta adeguatamente lo stato di inconsapevolezza nella morte. Merita, a questo punto, che si esamini brevemente il significato della metafora del «sonno» per capire la natura della morte. Alcuni affermano che i brani citati, che descrivono la morte come uno stato di non coscienza, «non siano lì a insegnare che l’anima dell’uomo sia in uno stato di incoscienza dopo la morte», ma piuttosto per dire che «alla morte l’uomo non può più partecipare alle attività del mondo presente».19

In altre parole, il defunto si troverebbe nello stato di incoscienza per quanto riguarda questo mondo, ma la sua anima continuerebbe a vivere nel mondo degli spiriti. La difficoltà di quest’interpretazione sta nel fatto che si basa sull’ipotesi che l’anima sopravviva alla morte del corpo; ipotesi che contrasta in modo evidente l’insegnamento dell’Antico Testamento. Abbiamo già visto, nella seconda parte di questo studio, come nelle Scritture ebraiche la morte costituisca anche la fine dell’anima in quanto il corpo è la forma esteriore dell’anima. In diversi luoghi, maveth (morte) è usato in riferimento alla morte seconda. «Com’è vero che io vivo, dice Dio, il Signore, io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva» (Ez 33:11; cfr. 18:23,32). Qui «la morte dell’empio», è evidente, non indica la naturale conclusione dell’esistenza umana, ma la morte che troveranno i peccatori impenitenti al giudizio finale. Nessuna descrizione letterale o metaforica della morte nell’Antico Testamento suggerisce l’idea di una sopravvivenza consapevole dell’anima o dello spirito indipendentemente dal corpo. La morte è la cessazione della vita per l’intera persona.

La morte nel Nuovo Testamento

Anche il termine greco thanatos (morte) manca di precisione circa la natura della morte, benché il Nuovo Testamento ponga come prospettiva di base la vittoria di Cristo sulla morte. Questo è il tema dominante delle Scritture cristiane che condiziona notevolmente il pensiero della chiesa riguardo la morte.

Attraverso la sua vittoria, Cristo ha neutralizzato il dardo della morte (1Cor 15:55); ha abolito la morte (2Tm 1:10); ha distrutto il diavolo che aveva l’impero sulla morte (Eb 2:14); ha nelle sue mani le chiavi del regno della morte (Ap 1:18); è il capo di una nuova umanità come primogenito dai morti (Col 1:18); chiama i credenti a nascere di nuovo, a una speranza vivente mediante la sua risurrezione dai morti (1Pt 1:3).

La vittoria di Cristo focalizza la comprensione del credente sulla morte fisica, spirituale ed eterna. Il credente può affrontare la morte fisica con un’attesa fiduciosa, sapendo che Cristo ha neutralizzato il pungiglione della morte e alla sua venuta risveglierà i santi che si sono addormentati (1Cor 15:51,56). I credenti spiritualmente «morti nelle colpe e nei peccati» (cfr. Ef 2:1; 4:17,19; Mt 8:22), sono stati rigenerati a una nuova vita in Cristo (Ef 4:24).

Gli increduli, che sono considerati spiritualmente morti perché rifiutano il beneficio di Cristo per la loro salvezza (Gv 8:21,24), nel giorno del giudizio sperimenteranno la morte seconda (Ap 20:6; 21:8). Questa è la morte finale, eterna, dalla quale non c’è ritorno. I significati metaforici della parola thanatos dipendono interamente dal significato letterale: cessazione di vita. Discutere sulla sopravvivenza dell’anima in base al significato metaforico del termine utilizzato per la morte, significa attribuire alla parola un significato che le è estraneo. Tutto questo è contrario alle regole ermeneutiche e grammaticali.

La morte nell’Antico Testamento

Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, la morte è spesso descritta come «sonno». Prima di tentare di spiegare la ragione per l’uso biblico della metafora del «sonno», sarà bene considerare qualche esempio.

Nell’Antico Testamento, per descrivere la morte-sonno si utilizzano tre termini: shachav, yashen e shenah. Shachav è il più comune e viene utilizzato nell’espressione che ritorna frequentemente come «dormire con i suoi padri» (cfr. Gn 28:11; Dt 31:16; 2Sam 7:12; 1Re 2:10). Il Signore dice a Mosè: «Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri» (Dt 31:16), e poi a Davide: «Tu riposerai con i tuoi padri» (2Sam 7:12). Giobbe dice: «Presto giacerò nella polvere» (Gb 7:21). Questo eufemismo è usato per indicare la morte e percorre come un filo unico tutto l’Antico e il Nuovo Testamento terminando con l’affermazione di Pietro che dice: «I padri si sono addormentati» (2Pt 3:4).

Commentando queste dichiarazioni, Basil F. Atkinson giustamente osserva: «Sia per i re, come per altri deceduti, è detto che dormono con i loro padri. Se i loro spiriti fossero vivi in un altro mondo, si sarebbe potuto dire tutto questo senza alludere al fatto che la persona indicata non stava invece dormendo affatto?».20

Yashen indica il verbo «dormire» (cfr. Ger 51:39; Sal 13:3) e il sostantivo «sonno». Quest’ultimo significato si trova nel testo di Daniele 12:2: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia». È da notare il fatto che, in questo brano, sia i giusti sia gli empi dormono nella polvere della terra e gli uni come gli altri saranno risuscitati alla fine.

Shenah è usata anch’essa per indicare il sonno della morte. Giobbe pone questa domanda retorica: «Ma l’uomo muore e perde ogni forza; il mortale spira, e dov’è egli?» (Gb 14:10). La sua risposta è: «Le acque del lago se ne vanno, il fiume vien meno e si prosciuga; così l’uomo giace, e non risorge più; finché non vi siano più cieli egli non si risveglierà né sarà più destato dal suo sonno (shenah)» (cfr. Gb 14:11,12; Sal 76:5; 90:5). Qui siamo confrontati con una descrizione realistica della morte. Quando una persona esala l’ultimo respiro, «dov’è?»; cioè, «cosa rimane di lui?»: niente. Egli non esiste più; diventa come un lago o un fiume che si è prosciugato; dorme nella tomba e non «si sveglierà» fino alla fine del mondo. Viene qui da chiedersi, avrebbe Giobbe fornito una descrizione così negativa della morte se avesse creduto che la sua anima sarebbe sopravvissuta alla morte? Se la morte avesse introdotto l’anima di Giobbe all’immediata presenza di Dio nel cielo, perché dice di aspettare «finché non vi siano più i cieli» (Gb 14:11) e «finché cambi la mia condizione» (Gb 14:14)? È evidente, che né Giobbe né alcun altro credente dell’Antico Testamento, sapeva di un’esistenza in un’altra dimensione dopo la morte.

La morte come un sonno

La morte è descritta come sonno nel Nuovo Testamento più di quanto essa non lo sia nell’Antico. La ragione può essere data dalla speranza della risurrezione, chiarita e rafforzata dalla risurrezione di Cristo. Tutto ciò offre un nuovo significato al sonno della morte dal quale i credenti si risveglieranno alla venuta di Cristo. Come Cristo ha dormito nella tomba prima della sua risurrezione, così i credenti dormono nella tomba mentre aspettano di essere risuscitati. Nel Nuovo Testamento si usano due verbi per indicare la morte come sonno: koimaõ e katheudein.

Il primo è koimaõ e viene usato quattordici volte; da questo deriva il sostantivo greco koimêtêrion, il nostro «cimitero». Per inciso possiamo notare che la radice del verbo koimaõ è oikos (casa), il cimitero è così collegato alla casa perché entrambi sono luoghi dove si dorme. Il secondo verbo è katheudein, spesso utilizzato per il sonno ordinario. Nel Nuovo Testamento ricorre quattro volte per indicare la morte (cfr. Mt 9:24; Mc 5:39; Lc 8:52; Ef 5:14; 1 Ts 4:14). Al momento della crocifissione di Cristo, Matteo riporta che «le tombe s’aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono» (Mt 27:52). Nell’originale il testo dice: «Molti corpi dei santi addormentati furono risuscitati». È evidente che ciò che è stato risuscitato sono le persone nella loro totalità e non solo i corpi. Non c’è alcun riferimento alle loro anime che si sono riunite ai loro corpi, ovviamente, perché questo concetto è estraneo alla Bibbia.

Parlando metaforicamente della morte di Lazzaro, Gesù ha detto: «Il nostro amico Lazzaro si è addormentato (kekoimêtai), ma io vado a svegliarlo» (Gv 11:11). Quando Gesù ha percepito di essere stato frainteso «disse loro apertamente: “Lazzaro è morto”» (Gv 11:14). Poi Gesù si affrettò a rassicurare Marta: «Tuo fratello risusciterà» (Gv 11:23).

Quest’episodio è estremamente significativo, prima di tutto, perché Gesù descrive apertamente la morte come un «sonno» dal quale i morti si risveglieranno al suono della sua voce. La condizione di Lazzaro nella morte era simile a un sonno dal quale ci si risveglia. Cristo ha detto: «Vado a svegliarlo» (Gv 11:11). Il Signore ha effettuato la sua promessa recandosi alla tomba per svegliare Lazzaro dove gridò ad alta voce: «“Lazzaro, vieni fuori”, e il morto uscì» (Gv 11:43,44). Il «risveglio» di Lazzaro dal sonno della morte mediante il suono della voce di Cristo è paragonato al risveglio dei santi addormentati nel giorno della sua gloriosa venuta. Anch’essi sentiranno la voce di Cristo e s’incammineranno a nuova vita. «L’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe udranno la sua voce e ne verranno fuori» (Gv 5:28; Gv 5:25). «Perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo… e prima risusciteranno i morti in Cristo» (1 Ts 4:16).

C’è armonia e simmetria nelle espressioni «dormire» e «svegliarsi», così come sono usate nella Bibbia per entrare e uscire dalla morte. Le due espressioni confermano la nozione che la morte sia uno stato inconscio come il dormire, dal quale i credenti si risveglieranno nel giorno della venuta di Cristo.

Lazzaro non ha vissuto nessuna esperienza ultraterrena

L’esperienza di Lazzaro è significativa anche perché ha trascorso quattro giorni nella tomba. Questa non era una semplice esperienza ravvicinata con la morte, ma una morte reale. Se l’anima, secondo la tradizione popolare, al momento della morte avesse lasciato corpo per recarsi in cielo, allora Lazzaro avrebbe avuto un’esperienza meravigliosa  da condividere riguardo ai quattro giorni trascorsi in paradiso. I capi religiosi e la gente avrebbero fatto tutto il possibile per ricevere dal racconto di Lazzaro quante più informazioni possibili circa il mondo invisibile.

Robertson W. Nichol dice: «Se (Lazzaro) avesse appreso qualcosa intorno al mondo degli spiriti, sicuramente l’avrebbe riferito».21 Queste informazioni avrebbero fornito risposte valide alle domande circa la vita dopo la morte, così calorosamente dibattute tra i sadducei e i farisei (cfr. Mt 22:23,28; Mc 12:18,23; Lc 20:27,33). Lazzaro, però, non ha raccontato nulla a proposito della vita dopo la morte, perché durante i quattro giorni trascorsi nella tomba, dormiva nel sonno inconscio della morte. Ciò che è stato vero per Lazzaro è anche vero per altre sei persone che sono state risuscitate dai morti: il figlio della vedova (1 Re 17:17,24); il figlio della sunamita (2 Re 4:18,37); il figlio della vedova a Nain (Lc 7:11,15); la figlia di Iairo (8:41,42,49,56); Tabita (At 9:36,41) ed Eutico (20:9,12). Tutte queste persone sono ritornate in vita come se fossero uscite da un sonno profondo, ma senza alcuna esperienza ultraterrena da raccontare.

Non vi sono indicazioni che l’anima di Lazzaro, o delle altre sei persone risuscitate dai morti, fosse ascesa al cielo. Nessuno di loro ha avuto «un’esperienza celestiale» da raccontare. La ragione sta nel fatto che nessuna è ascesa al cielo. Questo è confermato dai riferimenti di Pietro a Davide nel suo discorso il giorno della Pentecoste: «Fratelli, si può ben dire liberamente riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto; e la sua tomba è ancora al giorno d’oggi tra di noi» (At 2:29).

Alcuni potrebbero contestare dicendo che quello che si trovava nella tomba era sì il corpo di Davide, ma non la sua anima poiché era ascesa al cielo. Quest’interpretazione è negata dalle esplicite parole di Pietro: «Poiché Davide infatti non è salito in cielo» (At 2:34). La versione di John Knox traduce: «Davide mai è andato su al cielo». La Bibbia di Cambridge contiene la seguente nota: «Poiché Davide non è asceso al cielo. Egli è disceso nella tomba e “dormiva con i suoi padri”». Chi dorme nella tomba, secondo la Bibbia, non è solo il corpo, ma l’intera persona che aspetta il risveglio della risurrezione.

«Quelli che dormono…»

Nei due grandi capitoli sulla risurrezione in 1 Tessalonicesi 4 e in 1 Corinzi 15, Paolo parla ripetutamente di coloro che si sono «addormentati » in Cristo (cfr. 1Ts 4:13,14,15; 1Cor 15:6,18,20). Uno sguardo a certe sue affermazioni fa luce su ciò che Paolo intendesse affermare quando ha caratterizzato la morte con il sonno. Scrivendo ai tessalonicesi, che facevano cordoglio per i loro cari che si erano addormentati prima di sperimentare la venuta di Cristo, Paolo li rassicura che, come Dio ha risuscitato Gesù dai morti, così, mediante Cristo, «ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati» (1 Ts 4:14). Alcuni sostengono che Paolo qui stia parlando di anime disincarnate, che sono ascese alla morte in cielo e torneranno con Cristo quando egli scenderà sulla terra al suo ritorno. Quest’interpretazione ignora tre importanti aspetti.

– Il presente studio ha mostrato come la Bibbia non insegni da nessuna parte che l’anima alla morte ascenda al cielo.

– Nel contesto, Paolo non parla di anime immortali ma di «quelli che si sono addormentati» (1Ts 4:13; cf. v.14) e dei «morti in Cristo» (1Ts 4:16). Dalle loro tombe «prima risusciteranno i morti in Cristo» (1Ts 4:16) e non scenderanno dal cielo. Non c’è nessun accenno a corpi che risuscitano dalle tombe e anime che scendono dal cielo per essere riunite con i corpi. Questa nozione dualistica è sconosciuta dalla Bibbia. I commenti di Leon Morris secondo il quale «Paolo dice “porterà”, non “risusciterà”»,22 sono inesatti, visto che Paolo usa le due espressioni: Cristo risusciterà i morti e li porterà con sé. Quindi, il contesto suggerisce che Cristo porterà con sé i morti che sono risuscitati per primi, cioè prima del trasferimento dei credenti viventi.

– Se veramente Paolo avesse creduto che i «morti in Cristo» non fossero realmente morti nella tomba ma vivi, come anime disincarnate, egli avrebbe sicuramente insistito sulla loro condizione beata nel cielo per spiegare ai tessalonicesi che il loro cordoglio era sproporzionato. Perché piangere per i propri cari se essi stavano già godendo la celeste beatitudine? Paolo non li ha incoraggiati in questo modo perché, ovviamente, sapeva che i morti addormentati non erano in cielo, ma nelle loro tombe. Questa conclusione è incoraggiata da un altro messaggio di consolazione: i credenti viventi non avrebbero incontrato Cristo, alla sua venuta, prima di quelli che si sono addormentati. «Noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati» (1Ts 4:15). La ragione è che i morti in Cristo risusciteranno per primi; poi «noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (1Ts 4:16,17).

Il fatto che i santi viventi incontreranno Cristo nello stesso momento dei santi addormentati, indica che questi ultimi non sono stati ancora uniti con Cristo nel cielo. Se le anime dei santi addormentati stessero già godendo della comunione con Cristo nel cielo e poi dovessero scendere sulla terra con Cristo al suo secondo avvento, allora, ovviamente, gioirebbero di una evidente priorità sui santi viventi. In realtà, però, sia i credenti addormentati sia i credenti viventi, aspettano la loro attesa unione con il Salvatore, unione che sperimenteranno tutti nel giorno della venuta di Cristo.

La discussione di Paolo sui santi dormienti in 1 Corinzi 15, conferma quanto già trovato in 1 Tessalonicesi 4. Dopo aver affermato l’importanza fondamentale della risurrezione di Cristo per la fede e la speranza cristiana, Paolo spiega: «Se Cristo non è stato risuscitato… anche quelli che sono morti in Cristo, sono dunque periti» (vv. 17,18). L’apostolo difficilmente avrebbe potuto dire che i santi addormentati sarebbero periti senza la garanzia della risurrezione di Cristo, se in realtà avesse creduto che le loro anime fossero immortali e stessero già godendo della beatitudine del paradiso. Se Paolo avesse creduto tutto questo, probabilmente avrebbe detto che senza la risurrezione di Cristo l’anima dei santi addormentati sarebbe rimasta addormentata per tutta l’eternità. Ma Paolo credeva che l’intera persona, corpo e anima, sarebbe «perita» senza la garanzia della risurrezione di Cristo.

È significativo che nell’intero capitolo consacrato all’importanza e alle dinamiche della risurrezione, Paolo non accenni mai alla riunione del corpo con l’anima al momento della risurrezione. Se Paolo avesse avuto una siffatta convinzione, difficilmente avrebbe potuto evitare di fare qualche allusione al ricongiungimento del corpo con l’anima, specialmente durante le sue discussioni sulla trasformazione dei credenti da uno stato mortale a uno immortale, alla venuta di Cristo. L’unico «mistero» che Paolo rivela è che «non tutti morremo, ma tutti saremo trasformati» (1Cor 15:51). Questo cambiamento da una natura peritura a una incorruttibile avverrà nello stesso momento, per i viventi e per i morti, cioè al suono «dell’ultima tromba» (v. 52).

La trasformazione non ha nulla a che vedere con le anime disincarnate che rientrano in possesso dei loro corpi risuscitati. Si tratta di una trasformazione da una vita mortale a una immortale sia per i vivi sia per i morti in Cristo: «Il mortale avrà rivestito immortalità» (v. 54).

La metafora del «sonno»

L’uso popolare della metafora del «sonno» per descrivere lo stato dei morti da parte di Cristo solleva la questione delle sue implicazioni sulla natura della morte. Perché è stata usata questa metafora e quali intendimenti si possono legittimamente trarre in merito alla natura della morte? A questo proposito possono essere indicate tre ragioni fondamentali per l’uso della metafora del «sonno» nella Bibbia.

1. C’è una somiglianza tra il «sonno» dei morti e il «sonno» dei viventi. Sia l’uno sia l’altro sono caratterizzati da una condizione di inconsapevolezza e inattività, interrotte da un risveglio. La metafora del «sonno» rappresenta adeguatamente lo stato inconscio dei morti e il loro risveglio al ritorno di Cristo.

2. Si tratta di un’immagine che parla della morte in termini di speranza: implica un risveglio successivo. Come una persona va a dormire la sera nella speranza di risvegliarsi la mattina seguente, così il credente si addormenta nel Signore nella certezza di essere risvegliato da Cristo nel mattino della risurrezione. A. Barnes giustamente dice: «Nella Scrittura il sonno è utilizzato per affermare che la morte non sarà definitiva; ci sarà un risveglio, la risurrezione. È un’espressione bellissima e tenera che cancella tutto ciò che c’è di terribile nella morte e riempie la mente con l’idea di un sereno riposo dopo una vita di lotte; fa, inoltre, riferimento a una risurrezione futura con la garanzia di ricevere un maggior vigore e rinnovate energie».23

Quando si sente o si dice che una persona è morta, automaticamente si pensa al fatto che non ci sia più alcuna speranza per riportarla in vita. Quando però si dice che una persona sta dormendo nel Signore, si esprime la speranza del suo ritorno alla vita, nel giorno della risurrezione. B. Reichenbach nota che la metafora del sonno non sia soltanto un modo piacevole per parlare della morte, ma qualcosa di ancora più importante: «Essa suggerisce con forza come la morte non costituisca la fine dell’esistenza umana. Esattamente come una persona che sta dormendo può rialzarsi, così anche i morti, «addormentati», hanno la possibilità di essere ricreati e di vivere di nuovo. Questo è forse il significato del difficile racconto in Matteo 9:24 dove Gesù afferma che la giovane in realtà non è morta, ma sta solo dormendo. Le persone la consideravano morta e non nutrivano alcuna speranza per lei. Gesù l’ha considerata come se stesse dormendo e ha visto che c’era speranza perché poteva risuscitare a nuova vita. Ha visto in lei potenzialità che gli altri, inconsapevoli della potenza di Dio, non potevano vedere. La metafora del «sonno», allora, non descrive lo stato ontologico dei morti [cioè, la condizione del dormire], ma piuttosto si riferisce alla possibilità dei defunti che, anche se non esistono più, mediante la potenza di Dio possono essere ricreati per vivere di nuovo».24

Un sonno senza consapevolezza

3. La terza ragione per l’uso della metafora del «sonno» è che durante il sonno non esiste alcuna consapevolezza dello scorrere del tempo. La metafora descrive adeguatamente lo stato di incoscienza dei defunti tra la morte e la risurrezione perché non hanno alcuna consapevolezza del passare del tempo. Lutero, nei suoi primi scritti, ha espresso graficamente questo pensiero: «Così come uno che si addormenta e raggiunge inaspettatamente il mattino quando si risveglia, senza sapere che cosa gli sia successo, così ci alzeremo improvvisamente nell’ultimo giorno senza sapere come siamo entrati nella morte e come l’abbiamo attraversata».25

Lutero ha anche scritto: «Dormiremo finché egli venga e bussi sulla piccola tomba e dica, dottor Martino, alzati! Allora mi alzerò in un istante e sarò per sempre felice con lui».26

Per amore di verità, si deve dire che più tardi nella sua vita, Lutero ha rifiutato la nozione del sonno inconsapevole dei morti, apparentemente a motivo dei forti attacchi di Calvino contro questa dottrina. Nel suo Commentario sulla Genesi, scritto nel 1537, Lutero osserva: «L’anima defunta non dorme in questa maniera [il sonno regolare]; parlando correttamente, essa è sveglia e conversa con gli angeli e con Dio».27

Il cambiamento di posizione di Lutero, che è passato dalla convinzione dello stato incosciente alla dottrina dello stato consapevole dei morti, serve a mostrare come persino i riformatori non abbiano saputo sottrarsi alle pressioni teologiche del loro tempo.

Come Lutero, oggi la maggior parte dei cristiani crede che la metafora del «sonno» sia usata nella Bibbia per insegnare, non lo stato di incoscienza dei morti, ma per dire che «c’è una risurrezione e un risveglio».28

Certi studiosi sostengono che la morte sia paragonata a un sonno «non perché una persona sia incosciente, ma perché i morti non ritornino su questa terra e non sappiano che cosa sia successo e non sappiano in quale posto abbiano una volta vissuto».221 In altre parole, i morti sono inconsapevoli per quanto riguarda ciò che accade sulla terra, mentre sono consapevoli per ciò che riguarda la loro vita in cielo o nell’inferno.

Questa conclusione non è basata sulla Scrittura, ma sull’uso della metafora del «sonno» nella letteratura intertestamentaria. Per esempio, in 1 Enoc (circa 200 a.C.) si parla dei giusti che dormono un «lungo sonno» (100:5), mentre le loro anime sono in cielo, consapevoli e attive (cfr. 102:4,5; 2 Baruch 36:11; Esd 7:32). Dopo aver esaminato questi documenti, John Cooper conclude: «La metafora del sonno e del riposo è usata per persone nello stato intermedio dove sono consapevoli e attive, ma non in maniera terrena e corporea».29

Il significato biblico della metafora del «sonno» non può esser deciso sulla base dell’uso che ne fa la letteratura intertestamentaria, perché, durante quel periodo, i giudei ellenisti cercavano di armonizzare gli insegnamenti dell’Antico Testamento con la filosofia dualistica greca del loro tempo. I risultati di questa operazione, hanno condotto all’accettazione dell’immortalità dell’anima, della ricompensa o della punizione immediatamente applicate dopo la morte, e delle preghiere per i morti. Questa posizione, però, è estranea alla Bibbia.

Lo studio della metafora del «sonno» nell’Antico e nel Nuovo Testamento ha mostrato come essa implichi uno stato di inconsapevolezza che durerà fino al risveglio della risurrezione. Vale la pena notare come in 1 Corinzi 15, Paolo utilizzi il verbo egeiro per ben sedici volte, col significato letterale di «risvegliarsi» dal sonno.30

Il contrasto ripetuto tra il sonno e il risveglio è impressionante. La Bibbia utilizza frequentemente il termine «sonno» volendo, con ciò sottolineare una verità fondamentale, cioè che i morti in Cristo sono inconsapevoli a proposito di qualsiasi intervallo di tempo fino alla loro risurrezione. Il credente che muore in Cristo si addormenta e rimane in uno stato di incoscienza, fino a quando sarà risvegliato nel momento in cui Cristo lo richiamerà alla vita, alla sua venuta.

Il fondamento e il significato dell’immortalità

L’immortalità nella Bibbia non è una caratteristica innata dell’uomo, ma un attributo divino. Abbiamo già visto che il termine «immortalità» deriva dal greco athanasia, che significa «essere senza morire», quindi, esistenza senza fine. Questo termine si trova solo due volte; la prima, in relazione con Dio «il solo che possiede l’immortalità» (1 Tm 6:16), la seconda, in relazione alla mortalità umana che si deve rivestire con l’immortalità (1 Cor 15:53) al momento della risurrezione. L’ultima dichiarazione nega la nozione dell’immortalità naturale dell’anima, in quanto afferma che l’immortalità è un qualcosa di cui i santi risuscitati si rivestiranno. Non è qualcosa che già possiedono. «Il fondamento dell’immortalità», come dice Vern Hannah, «è soteriologico e non antropologico».31

Questo significa che l’immortalità è un dono divino ai salvati e non una naturale proprietà umana. Come ha scritto P. T. Forsyth: «Una convinzione certa nell’immortalità non poggia su ciò che afferma la filosofia, ma sulla rivelazione. Non è basata sulla natura dell’organismo psichico, ma sulla relazione con l’Altro».32

Questo «altro» è Gesù Cristo, «il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo» (2 Tm 1:10). La Bibbia non suggerisce da nessuna parte che l’immortalità sia una qualità o un diritto naturale degli esseri umani. La presenza «dell’albero della vita» nel giardino dell’Eden indica che l’immortalità era condizionata al frutto di quell’albero.

La Scrittura insegna che «l’immortalità deve essere ricercata» (Rm 2:7) e il credente ne sarà rivestito (1Cor 15:53). La “vita eterna” è il dono di Dio (Rm 6:23) che deve essere ereditato (Mt 19:29) e si ottiene conoscendo Dio e Gesù (Gv 17:3) mediante Cristo (cfr. Gv 14:19; 17:2; Rm 6:23). Nella visione paolina, l’immortalità è collegata soltanto alla risurrezione di Gesù (1Cor 15) come fondamento e pegno della speranza del credente».33

Quanti insistono nel trovare l’idea filosofica dell’immortalità dell’anima nella Bibbia ignorano la rivelazione di Dio e inseriscono idee dualistiche greche nella fede biblica.

Conclusione

La tradizione popolare considera che la morte riguardi solo il corpo e non l’anima che continuerebbe la propria esistenza. Vern Hannah giustamente afferma: «Una tale, radicale ridefinizione della morte, è infatti un rinnegamento della morte – una definizione, senza dubbio, che l’astuto serpente antico di Genesi 3, troverebbe molto attraente».34

La Bibbia si accosta alla questione della morte in maniera decisamente più seria. La morte è l’ultimo nemico (1Cor 15:26) e non il liberatore dell’anima immortale. Come dice Oscar Cullmann, «la morte è la distruzione di tutta la vita creata da Dio. Perciò è la morte e non il corpo che deve esser vinta nella risurrezione».35

H. Thielicke osserva che l’idea dell’immortalità dell’anima è una scappatoia che permette alla persona «reale» di evitare la morte. È un  tentativo di «disarmare la morte». Continua spiegando che «possiamo aggrapparci in modo idealistico a qualche “regione inviolabile dell’ego”, ma la morte non consiste in un “andar sopra” ma in un “andar sotto”, e non lascia nessuno spazio al romanticismo o all’idealismo. Non possiamo né svalutare né ottenebrare la realtà della tomba attraverso l’idea dell’immortalità. La prospettiva cristiana si fonda sulla risurrezione e non già sull’immortalità dell’anima».36 L’unica salvaguardia contro il malinteso popolare della morte, poggia sulla comprensione chiara di ciò che la Bibbia insegna sulla sua natura. L’Antico e il Nuovo Testamento insegnano chiaramente che la morte è la negazione della vita per l’uomo nella sua totalità. Non c’è memoria o coscienza nella morte (cfr. Sal 8:5; 146:4; 30:9; 115:17; Ec 9:5). Non c’è esistenza indipendente dello spirito o dell’anima separatamente dal corpo. La morte è la perdita di tutto l’essere e non soltanto la perdita del benessere. La persona, intesa come un tutto indivisibile, riposa nella tomba in uno stato di totale incoscienza chiamato «sonno» nella Bibbia. Il «risveglio» avrà luogo alla venuta di Cristo quando richiamerà in vita i santi addormentati.

La metafora del «sonno» è veramente un’espressione bellissima e tenera che toglie alla morte la parola finale per il destino dei credenti in quanto ci sarà il risveglio della risurrezione.

Questo studio è stato tratto dal libro “Immortalità o Risurrezione?,
di Samuele Bacchiocchi, teologo, della Andrews University, Michigan, U.S.A., ed. AdV, Impruneta, (FI).

Note:
1 O. CULLMANN, «Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?», in Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, editrice Ave, Roma, 1971, pp. 196,197.
2
Ibidem, p. 199.
3
Ibidem, p. 201.
4
Ibidem, p. 202
5
Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria vaticana, Città del Vaticano, 1992, p. 265.
6
A.H. STRONG, Systematic Theology , Old Tappan, New Jersey, 1970, p. 982.
7
H.C. THIESSEN, Lectures in Systematic Theology, Grand Rapids, 1979, p. 338.
8
F. PIEPER, Christian Dogmatics, trans. Theodore Engelder, St. Louis, 1950, vol. 1, p. 536.
9
P. ALTHAUS, Die Letzten Dinge, Gutersloth: Germany, 1957, p. 157.
10
P. ALTHAUS, Ibidem, p. 155
11
Idem.
12
P. ALTHAUS, Op.cit., p. 156.
13
Ibidem, p. 158.
14
J.A.T. ROBINSON, The Body, A study in Pauline Theology, London, 1957, p. 14.
15
T. KANTONEN, Life after Death, Philadelphia, 1952, p. 18.
16
E. JACOB, «Death», The Interpreter’s Dictionary of the Bible, Nashville, 1962, vol. 1, p. 802.
17
H. BAVINK, «Death», The International Standard Bible Encyclopaedia, Grand Rapids, 1960, Vol. 2, p. 812.
18
E. JACOB, Op. cit., p. 803.
19
H.W. TEPKER, Problems in Eschatology: The Nature of Death and the Intermediate State, The Springfielder, Summer 1965, p.26.
20
B.F.C. ATKINSON, Life and Immortality, Taunton, England, n.d., p. 38.
21
R.W. NICHOL (editore), Expositor’s Bible, New York, 1908, p. 362.
22
L. MORRIS, The Epistles of Paul to the Thessalonians, Grand Rapids, 1982, p. 86.
23
A. BARNES, Notes on the New Testament. Luke and John, Grand Rapids, 1978, p. 297.
24
B.R. REICHENBACH, Is Man the Phoenix, Grand Rapids, 1978, p. 185.
25
M. LUTHER, Werke, Weimar, 1910, XVII, 11, p. 235.
26
Ibidem, XXXVII, p. 151.
27
E. PLASS, What Luther Says, St. Louis, 1959, vol. 1, par. 1132.
28
H.W. TEPKER, Op. cit., p. 26.
29
Ibidem
30
J.W. COOPER, Body, Soul, and life Everlasting, Grand Rapids, 1989, p. 151. Lo stesso punto di vista è espresso anche da K. HANHART, The Intermediate State of the Dead, Franeker, 1966, pp. 106-114; H. MURRAY, Raised Immortal, London, 1986, pp. 134-137.
31
«Egeiro», in A Greek-English Lexicon of the New Testament, ed. William F. Arndt and F. Wilbur Gingrich, Chicago, 1979, p. 214.
32
V.A. HANNAH, «Death, Immortality and Resurrection: A Response to John Yates, The Origin of the Soul, in The Evangelical Quarterly n. 62/3, 1990, p. 245.
33
S. MIK226 V.A. HANNAH, Op. cit., p. 245.
34
Ibidem, p. 244.
35
O. CULLMANN, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti, Paideia, Brescia, 1967 p. 26. «Quella vittoria, Gesù non può riportarla semplicemente continuando a vivere come anima immortale, quindi in fondo senza morire. Egli non può vincere la morte che morendo davvero, entrando nel regno stesso della morte, la grande distruttrice della vita, nel regno del nulla, del distacco da Dio. Chi vuole vincere qualcuno, deve entrare nel suo territorio. Chi vuole vincere la morte, deve morire, ma, si badi: cessare davvero di vivere, non continuare a vivere come anima immortale; perdere il bene più prezioso che Dio ci abbia dato, la vita stessa» (p. 25). OLASKI, ed., The Creative Theology of P. T. Forsyth, Grand Rapids, 1969, p. 249.
36
H. THIELICKE, Tod und Leben, pp. 30,43, as cited by G.C. BERKOUWER, Man: The Image of God, Grand Rapids, 1972, p. 253.

Per la richiesta di questo e di altri studi riportati nella categoria Approfondimenti teologici (max. 4 per settimana), compila il modulo

MODULO RICHIESTA

Share Button