Tratto dal libro “Il ritorno annunciato” di Giovanni Leonardi
“Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo giacerà col capretto; il vitello, il giovin leone e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. … Non si farà né male né guasto su tutto il mio monte santo, poiché la terra sarà ripiena della conoscenza dell’Eterno, come il fondo del mare dall’acque che lo coprono» Isaia 11:6-9
“Il frutto della giustizia sarà la pace, e l’effetto della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo abiterà in un soggiorno di pace, in dimore sicure, in quieti luoghi di riposo» Isaia 32:17,18
Vacanze spirituali
Non penso sempre al nuovo mondo che Dio sta preparando. In parte ciò avviene perché mi ritrovo immerso in suoni e visioni che richiamano al mio cuore scene diverse da quelle del regno di Dio, che tendono a indirizzare altrove i miei pensieri. In parte perché l’attesa cristiana del futuro si vive agendo nel presente. Ma ogni tanto è bello prendersi come una vacanza spirituale, per riposarsi e per non dimenticare il traguardo della nostra fatica d’oggi. E allora mi capita di soffermarmi sugli scenari dei nuovi cieli e della nuova terra di cui mi parla la Bibbia. E penso a come potrò viverci, alle emozioni che proverò, alle tante cose che penso di realizzarvi.
In genere si pensa maggiormente alla nuova terra quando si soffre, ed io non ho molti motivi di sofferenza. Ma penso alla sofferenza degli altri e a cosa significherà per essi vivere in una nuova patria. E così entro in questa terra e trovo nutrimento per la mia speranza, consolazione e riposo.
L’apostolo Giovanni vide la nuova terra e la nuova Gerusalemme che ne costituisce il centro. La sua visione è piena di elementi simbolici, ma si comprende, al di là delle immagini, il senso di quanto Dio vuole direi. Anche i profeti sognarono e videro la casa del loro futuro e del futuro del mondo. Cosa possiamo imparare dalle loro parole?
Né Nirvana né Bengodi
La nuova terra di cui ci parla la Bibbia non è né il Nirvana dell’oriente né il Paese di Bengodi dell’islam. Non è il luogo di una pace ritrovata attraverso il dissolvimento dell’io e neppure il luogo della festa perché gli altri ci servono. La pace della nuova terra esiste perché !’io di ognuno ritrova un diritto non più minacciato all’esistenza in una armonia con !’io di Dio e quello degli altri. La festa non nasce dall’ essere serviti, ma dal fatto che tutti hanno imparato a servirsi reciprocamente sotto la guida di Dio. «… il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace ed allegrezza nello Spirito Santo» (Romani 14:17). «… secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia» (2 Pietro 3:13).
La nuova terra nel libro di Isaia
I profeti dell’Antico Testamento hanno intravisto questa nuova creazione. L’hanno vista come una riconquista dell’armonia e della pace, del lavoro fruttuoso e sereno in un mondo rinato a nuova vita.
Soprattutto il profeta Isaia ne parla diffusamente e con accenti toccanti. Un giorno, egli dice, «Il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e fiorirà come la rosa; si coprirà di fiori e festeggerà con giubilo e canti di esultanza … Essi vedranno la gloria dell’Eterno, la magnificenza del nostro Dio» (Isaia 35:1,2). «Allora l’equità abiterà nel deserto, e la giustizia avrà la sua dimora nel frutteto. Il frutto della giustizia sarà la pace, e l’effetto della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo abiterà in un soggiorno di pace, in dimore sicure, in quieti luoghi di riposo» (Isaia 32:16-18). «Essi costruiranno case e le abiteranno; pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non costruiranno più perché un altro abiti, non pianteranno più perché un altro mangi; poiché i giorni del mio popolo saranno come i giorni degli alberi; e i miei eletti godranno a lungo dell’opera delle loro mani» (Isaia 65:21,22).
La novità della situazione descritta non può essere rappresentata che come una nuova creazione: «Poiché, ecco, io creo dei nuovi cieli e una nuova terra…» (Isaia 65:17). E questa nuova creazione investirà pienamente la natura stessa dell’uomo: «Nessun abitante dirà: lo sono malato», perché «il popolo che abita Sion», la città di Dio, «ha ottenuto il perdono…» (Isaia 33:24). Il perdono di Dio non comporta soltanto il perdono del peccato commesso, ma la restaurazione delle condizioni che il peccato aveva corrotto. «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi, e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo, e la lingua del muto canterà di gioia…» (Isaia 35:5,6).
Come comprendere il senso di queste visioni? Abituati come siamo a una visione spiritualizzata, platonica o dantesca del regno di Dio, ci sembra quasi che la visione profetica sia troppo materialistica, troppo fatta di attività comuni, troppo poco degna di Dio e dell’anima umana. Però per il profeta Isaia, come per tutta la Bibbia, la spiritualità non è antimaterialità, ma conformità della materia al progetto dello Spirito di Dio. La visione biblica della creazione – l’abbiamo già visto – non è dualistica perché la natura e l’uomo sono, nella loro fisicità espressione della potenza e dell’amore di Dio che creando ogni cosa fece tutto «buono» (cfr. Genesi 1:31). L’uomo creato nell’ambito della natura vi è stato posto come re e servitore (cfr. Genesi 1:28; 2:15). Il male e la sofferenza non derivano dalla materialità ma dal peccato e dalla corruzione, dalla fatica e dalla morte che ne conseguono. La visione biblica della vita nella nuova terra non è quella di un’estasi incantata piena di canti e di musiche, ma quella di un impegno sereno e gioioso,senza «il sudore della fronte» (cfr. Genesi 3:19), la pena, la lotta e l’inquietudine dell’incertezza in compagnia dei quali la maggior parte degli uomini sono oggi costretti a guadagnarsi la vita.
Non sogno l’estasi, ma la comunione gioiosa con un Dio che mi ha creato per essere qualcosa di più di un cantore estatico e fermo della sua gloria. Il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe non è il sovrano che, seduto sul suo trono, passa l’eternità in una immobilità statica e incantatrice delle sue creature. Egli è un Dio che opera, come dice Gesù, senza sosta (cfr. Giovanni 5:17) e immagino che lo faccia con gioia se, come dice il profeta Isaia, il fine della sua opera è la gioia del suo popolo (cfr. Isaia 65:18). Non siamo le arpe di Dio, ma i suoi figli e i suoi collaboratori nel mantenimento dell’universo. Ci ha creato con un cuore capace di amare ma anche con mani e piedi, con doti intellettive, con la capacità di progettare, di realizzare, di amare e di servire. Siamo stati creati a immagine di Dio per onorare Dio non solo attraverso i nostri occhi, le nostre labbra e il nostro pensiero, ma con tutto il nostro essere e le nostre capacità. Ci saranno certamente i canti, ma essi non saranno la vita, ne faranno soltanto parte, sorgeranno da essa.
Il profeta Isaia comprende molto bene il carattere della nuova terra. La descrive nei termini caratteristici del mondo rinnovato come poteva vederlo un abitante della Palestina dell’VIII secolo A.C., ce ne fa intuire l’essenza perenne. Egli parla solo di case e di vigne. Ignora le tante attività che l’uomo si è inventate in seguito. Pensa a deserti che diventano campi fioriti perché egli conosceva il deserto, ma la prosperità della natura è l’essenza non solo del suo sogno ma della stessa opera creativa di Dio.
Da ragazzo avrei voluto studiare elettronica. Oggi faccio il pastore perché so che tante altre persone possono occuparsi di elettronica, mentre sono pochi quelli che si dedicano al servizio della speranza cristiana, che accettano di essere a tempo pieno testimoni di Cristo. Oggi c’è bisogno di operai che accettino l’invito del Maestro (cfr. Luca 10:2), ma un giorno potrò studiare l’elettronica, che io vedo non solo come conquista dell’uomo, ma anche come testimonianza della grandezza della creazione di Dio. Tante cose nuove si potranno fare in quel giorno, e tutte le cose belle di oggi rimarranno… senza il male e la sofferenza.
Vita eterna o vita lunga?
Un problema suscitato dal profeta Isaia è quello della permanenza, nei nuovi cieli e nella nuova terra, della morte e addirittura del peccato. Una mamma, egli dice, non partorirà più un figlio per vederlo morire dopo pochi giorni: «non vi sarà più, in avvenire, bimbo nato per pochi giorni; né vecchio che non compia il numero dei suoi anni: chi morrà a cent’anni morrà giovane, e il peccatore sarà colpito dalla maledizione a cent’anni… i giorni del mio popolo saranno come i giorni degli alberi; e i miei eletti godranno a lungo dell’opera delle loro mani» (Isaia 65:20,22). La speranza di Isaia non sembra quindi essere quella di una vita eterna, ma quella di una vita vissuta a sazietà in modo che nessun Giacobbe possa più lamentarsi del numero limitato dei suoi giorni dopo essere vissuto fino a 130 anni (cfr. Genesi 47:9).
Come mai questo limite nella visione di Isaia? Una risposta può essere il fatto che la sua visione della nuova terra è limitata, non solo dalla sua personale conoscenza del mondo, ma anche dalla mancata conoscenza della pienezza del progetto di Dio. Tra gli scrittori dell’Antico Testamento, egli, è colui che ha goduto di più della visione anticipatrice dell’opera del Cristo. L’ha conosciuto in visione senza poterne vedere l’opera compiuta. Le rivelazioni che il Signore gli ha dato non potevano essere ancora complete. Nel quadro della progressione della rivelazione biblica, toccherà ad altri profeti successivi, come Daniele, affermare distintamente l’eternità della vita dei credenti: «E molti di coloro che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni per la vita eterna, gli altri per l’obbrobrio, per un’eterna infamia» (Daniele 12:2). Toccherà a Gesù farlo con maggiore chiarezza e, non a caso, egli è la fonte della vita (cfr. Giovanni 1:4; 14:6) è colui che ne ha resa possibile agli uomini la riconquista (cfr. Giovanni 3:16; 1 Giovanni 5:12). Dopo Gesù, tutto il Nuovo Testamento risuona delle grida di gioia dell’ eternità riconquistata.
A complemento di quanto ho appena detto può essere utile vedere la visione di Isaia sullo sfondo della sua attesa concreta. Egli conosce le sofferenze del Messia e sa che sarebbe stato respinto dal suo popolo (cfr. cap. 53). È tuttavia probabile che la sua visione della nuova terra sia quella determinata, nonostante tutto, dall’accettazione complessiva del Messia da parte di Israele. In questo caso, la conversione a Dio avrebbe aperto le porte a una benedizione tale che avrebbe trasformato la vita della terra creando situazioni di giustizia, di pace e di benessere per tutti.(1) Isaia non conosce ancora la dottrina neotestamentaria del ritorno in gloria di Cristo e la sua visione è quindi limitata a quello che avrebbe potuto accadere prima della parusia, per un processo di trasformazione graduale delle condizioni della vita, se il popolo, e con esso l’umanità, avesse accettato il Cristo. Ma così non è stato e Dio ha dovuto portare a compimento la sua promessa di nuovi cieli e nuova terra in modo meno sfumato e progressivo.
Condivido personalmente le spiegazioni date sopra. Mi chiedo però se la visione di Isaia sia veramente così limitata come sembra o se non vi sia anche qualcosa d’altro da dire. Egli conosce il concetto d’eterno che applica, ad esempio, alla gioia dei redenti (cfr. 35:10; 51:6,11; 61:7). Anche la loro salvezza sarà «eterna» (cfr. 45:17). È vero che egli applica questo termine al popolo nel suo insieme ed è probabile che pensi quindi a una eternità del popolo più che a quella dei suoi singoli membri. Un’eccezione può essere però quella in cui parla degli eunuchi fedeli a Dio ai quali è promesso «… un posto ed un nome, che varranno meglio di figli e di figlie, … un nome eterno, che non perirà più» (Isaia 56:5). In questo caso si parla di individui e non è pensabile, trattandosi di persone senza figli, che il nome eterno promesso da Dio si realizzi attraverso la loro discendenza, come avveniva spesso nella concezione ebraica. Non è quindi del tutto fuori luogo chiedersi se la diversa descrizione data al cap. 65, non sia per caso dovuta all’uso di un linguaggio poetico che esprime la certezza dell’assenza di sofferenza e di morte nei termini di una immediata aspettativa popolare piuttosto che nel quadro dell’attesa oggettiva del profeta stesso. Isaia potrebbe cioè indicare più i limiti da rifiutare che l’estensione oggettiva della speranza.
La nuova Gerusalemme dell’ Apocalisse
Il quadro della realizzazione della speranza cristiana si completa nel Nuovo Testamento e conferma pienamente quanto l’Antico aveva già detto, portandolo più avanti, verso una realizzazione totale e radicale.
Molti elementi di questa speranza sono già stati delineati in altre parti di questo libro. Ora vorremmo soffermarci solo sugli ultimi capitoli del libro dell’ Apocalisse.
Il giudizio alla fine del Millennio chiude il quadro degli eventi legati alla nostra esperienza attuale. Dopo, i nostri occhi sono finalmente guidati verso la scena da tanto tempo sognata. I nuovi cieli e la nuova terra che Isaia aveva preannunciati, ora appaiono a Giovanni: «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra» (cfr. Apocalisse 21:1).(2) L’intero universo è stato purificato dal male, tutto è stato ricondotto alla piena comunione con Dio. D’ora innanzi non si dovrà più distinguere il cielo dalla terra come se si trattasse di due realtà diverse. Anzi, il cielo stesso scende sulla terra, perché qui scende la città celeste, la nuova Gerusalemme, bella «come una sposa adorna per il suo sposo», con tutti i santi e soprattutto con il trono di Dio, perché Dio «… abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli… e sarà loro Dio» (Apocalisse 21:2,3). La terra non sarà più il luogo della lontananza da Dio, lo spettacolo all’universo del dramma del male (cfr. 1 Corinzi 4:9), ma il centro d’irradiazione della gloria e della grazia di Dio. Il cielo dell’universo sarà la terra.
Tabernacolo e tempio
Non avremo più bisogno di pregare dicendo «Padre nostro che sei nei cieli» perché egli sarà davanti a noi senza che alcuna barriera ci divida. Giovanni, insieme alla nuova Gerusalemme, descrive anche il «tabernacolo di Dio» che scende dal cielo per posarsi sulla terra. Volutamente, penso, non usa il termine tempio. Il tabernacolo era la tenda la cui presenza nel campo indicava il desiderio di Dio di essere vicino al suo popolo, di vivere fianco a fianco con lui, per assicurarlo della sua protezione e farlo vivere in un clima di sicurezza: «E mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro»(Esodo 25:8). Il tabernacolo era anche mobile e si spostava con il campo del popolo durante le peregrinazioni d’Israele. Con il tempio era il popolo a dovere andare da Dio, con il tabernacolo era Dio che seguiva il popolo. E ora, nella nuova realtà, Dio riprende a seguire il suo popolo portando la sua tenda fra loro.
Anche il tempio rappresentava la presenza di Dio, ma era una presenza più istituzionalizzata, meno intima. Per questo forse Giovanni, pur dicendo che nella nuova terra ci sarà il tabernacolo, visto come segno della comunione intima con Dio, dice che non ci sarà più il tempio. il tempio rende Dio presente, ma nello stesso tempo lo nasconde e lo allontana. Dio vuole invece realizzare un contatto diretto con il suo popolo. Per questo Giovanni dichiara che«… il Signore Iddio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Apocalisse 21 :22).
La città
La visione della nuova terra è arricchita dalla presenza della nuova Gerusalemme. Anche qui, come in Isaia, i termini della descrizione sono legati al tempo in cui l’autore viveva. Mentre Isaia, che viveva in Palestina, vedeva la nuova terra come riconquista del deserto da parte della vita, Giovanni ha una visione più urbanizzata e per questo, al centro della nuova terra, pone la città di Dio, la nuova Gerusalemme (cfr. Apocalisse 21:9-22:5). Dio gliela mostra come una città bellissima, costruita con i più preziosi materiali immaginabili, con una piazza «d’oro puro, simile a vetro trasparente» (cfr. Apocalisse 21:21); materiale raro e prezioso a quei tempi, che ricorda la gloria di Dio mostrata a Mosè e agli anziani d’Israele sul monte Sinai (cfr. Esodo 24:10) e che già altre volte Giovanni aveva associato alla gloria celeste del suo Signore (cfr. Apocalisse 4:6; 15:2). Come per dire che ora la contemplazione della gloria di Dio, il poter parlare faccia a faccia con lui, non sono riservati ad alcuni rappresentanti privilegiati e santi del popolo, ma a tutti i suoi figli.
La nuova Gerusalemme è una città immensa, con un perimetro quadrangolare in cui ogni lato misura 2.200 km. Precisandone semplicemente la misura, si rischia di fraintendere il messaggio di Giovanni. Egli dice che il suo lato era lungo 12.000 stadi, cifra composta dal 12, numero simbolo del popolo di Dio (si ricordino i dodici patriarchi, le dodici tribù, i dodici apostoli) moltiplicato per mille, in segno di grande abbondanza. Il messaggio di Giovanni diventa allora chiaro: la nuova Gerusalemme è tale da accogliere la totalità del popolo di Dio, una grande città per un popolo numeroso, senza paura che qualcuno possa non esservi accolto. È un modo diverso per dire quello che Gesù aveva detto con altre parole: «Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore» (cfr. Giovanni 14:2).
La città è anche perfetta: i suoi quattro lati hanno la stessa misura che corrisponde anche alla sua altezza (cfr. Apocalisse 21:16). Si tratta evidentemente di una cifra geograficamente impossibile. Se si considera che il raggio della terra intera è di 6.378 chilometri, non può esistere una città alta 2.200 km. Ma Giovanni non sta dando le misure architettoniche della città. Le sue sono misure spirituali e religiose.
Anzi, si può avere !’impressione che egli non stia affatto descrivendo la città, ma il senso del vivere in essa. Se si intende così, allora si capirà come essa abbia delle mura altissime di 144 cubiti, cioè 63 metri circa, con porte che rimangono sempre aperte (cfr. Apocalisse 21:17,25). In quei tempi la sicurezza era così precaria, per le numerose guerre che minacciavano frequentemente la vita, che le mura di una città rappresentavano la sicurezza dei suoi abitanti. Più alte e robuste erano, più si poteva vivere serenamente alloro interno. Ma nella nuova terra non ci saranno più né guerre né minacce di alcun genere. I popoli camminano alla luce di Gerusalemme, che è la luce di Dio (cfr. Apocalisse 21:23,24). C’è pace e sicurezza, come aveva detto Isaia, e non c’è bisogno di chiudere le porte. Le mura non servono quindi più, ma stanno lì, nella visione della santa città, a dire agli uomini del tempo di Giovanni che in Dio si potrà vivere veramente una vita sicura al di là di quanto potessero sperare nelle condizioni di vita del loro tempo.
Giovanni non descrive la struttura fisica della città, dicevamo, ma il senso del vivere in essa. Pos¬siamo andare ancora oltre: Giovanni sta certamente tentando di dare un’idea di cosa significherà vivere nella città di Dio, ma forse, più che della città, sta anche e soprattutto parlando del popolo che vi abita. In questa prospettiva si possono comprendere diversi elementi.
Abbiamo già notato come le misure della città siano fondate sul numero dodici: i 12.000 stadi della sua lunghezza, larghezza e altezza, ma anche i 144 (12xI2) cubiti delle sue mura, le 12 porte, le 12 fondamenta. Quest’insistenza non può essere casuale e tende evidentemente a trasmettere !’idea che Giovanni stia parlando non dell’architettura della città ma del popolo di Dio.
In questa direzione vanno diversi elementi. Uno di questi è che le dodici fondamenta recano, ognuna, il nome di uno dei dodici apostoli. Non si tratta di una immagine nuova. L’apostolo Paolo aveva già detto che la chiesa di Dio è edificata avendo Cristo come pietra angolare, sul fondamento degli apostoli e dei profeti (cfr. Efesini 2:20). Gli apostoli hanno cominciato la loro missione con pochi mezzi, in un mondo ostile che spesso li derideva per un messaggio che ai loro occhi appariva assurdo se non addirittura blasfemo (cfr. 1 Corinzi 1:22,23). Le difficoltà che hanno dovuto superare sono state immense. L’apostolo Paolo quando, sfogandosi, si mette a farne l’elenco, deve dilungarsi alquanto; egli afferma di avere il diritto di essere considerato apostolo «… per le fatiche… per le carcerazioni… per le battiture sofferte. Sono spesso stato in pericolo di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno: tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte sull’abisso. Spesse volte in viaggio, in pericoli sui fiumi, in pericoli di ladroni, in pericoli per parte de’ miei connazionali, in pericoli per parte dei Gentili, in pericoli in città, in pericoli nei deserti, in pericoli sul mare, in pericoli tra falsi fratelli, in fatiche ed in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità. E per non parlar d’altro, c’è quel che m’assale tutti i giorni, l’ansietà per tutte le chiese» (2 Corinzi 11:23-28). C’era da disperarsi sulle oggettive possibilità di riuscita. La crocifissione non sembrava un buon lancio pubblicitario della fede cristiana. Eppure la croce avrebbe cambiato milioni di persone e sul fondamento del loro ministero si sarebbe costruita una immensa città – nell’immagine di Giovanni – un grande popolo nel senso reale delle sue parole. Allo stesso modo si comprende come le 12 porte rechino ognuna il nome di una tribù d’Israele,(3) perché entrare nella città di Dio significa entrare nel popolo di Dio.
Il popolo di Dio che vivrà nella santa città di Dio avrà edificato se stesso sul fondamento degli apostoli, avrà cioè accettato la loro testimonianza su Gesù facendone la fonte della loro speranza e la guida della loro vita. «Nessuno può porre altro fondamento che Cristo Gesù» dice l’apostolo Paolo (cfr. 1 Corinzi 3:11). La chiesa cristiana è tale non perché edificata sulle filosofie della nostra cultura, sulle tradizioni o sulle gerarchie, ma su Cristo che ha imparato a conoscere e ad amare attraverso la testimonianza degli apostoli. Questa testimonianza ci è ancora direttamente accessibile attraverso le Sacre Scritture ed è nella misura in cui oggi ci radichiamo in esse che il nostro frutto potrà essere un giorno raccolto nella città di Dio.
Un altro elemento che ricorre spesso, anche al di fuori dell’Apocalisse, è quello delle nozze di Cristo alle quali i santi sono invitati (cfr. Apocalisse 19:7; Matteo 22:1-4; 25:1-10). In Apocalisse 21:2 sembra che sia la città, cioè i salvati, nell’interpretazione che stiamo proponendo, a svolgere il ruolo della sposa. In alcuni testi i santi sono invece invitati alle nozze e !’immagine potrebbe essere interpretata come segno di una distinzione tra la sposa di Cristo e i santi. Altri testi confermano comunque che è il popolo di Dio, la chiesa nel Nuovo Testamento o Israele nell’Antico Testamento, a essere la sposa di Cristo.(4) Apocalisse 19:7-9 unisce le due immagini: da una parte i santi sono invitati alle nozze dell’agnello dicendo che la sposa si è preparata, ma dall’altro si dice che l’ornamento della sposa è dato dalle «opere giuste dei santi». La sposa e i santi sono dunque la stessa cosa e lo sdoppiamento dell’immagine rappresenta soltanto la differenza che esiste tra il singolo credente e !’insieme del popolo di Dio. Gesù non sposa una città fatta di mura e di piazze, per quanto bella possa essere, ma una città vivente fatta di tutti coloro per i quali ha dato la sua vita e dai quali ha avuto in cambio un amore riconoscente e perpetuo.
In questa prospettiva assume tutto il suo valore anche la descrizione della città di Dio come una città tutta d’oro e pietre preziose. Se la città è il popolo di Dio, allora i redenti non vivranno circondati d’oro, ma essi stessi saranno d’oro, un oro limpido come il «vetro puro» (cfr. Apocalisse 21:18) costituito dalle «opere giuste dei santi» di cui è ornata la «sposa di Cristo» (cfr. Apocalisse 19:8). La ricchezza del regno di Dio non è data dall’abbondanza di ciò che ha scatenato la concupiscenza e la violenza degli uomini del regno attuale. Non è per questo che i credenti hanno sperato. Lo splendore del regno di Dio è dato dalla limpidezza del carattere del suo Re e dei suoi sudditi. Se il regno di Dio che viene deve costituire, come abbiamo visto più volte, il modello del popolo di Dio d’oggi, anche da questo fatto abbiamo forse qualcosa da imparare.
L’albero della vita: il ritorno all’Eden
Al centro della città c’è l’albero della vita perduto per colpa del peccato e ora pienamente ritrovato al centro del popolo di Dio. Con l’albero della vita è l’Eden che ritorna, con tutto ciò che esso rappre¬sentava in termini di pace, di armonia, di vita, di comunione tra gli uomini, con Dio e con la stessa natura. Quella frase stupenda che il libro della Genesi legge nel cuore di Dio: «E Dio vide che tutto era molto buono» (Genesi 1:31) torna a risuonare con il libro dell’Apocalisse.
Nell’Apocalisse Dio è chiamato più di una volta «il primo e l’ultimo, l’inizio e la fine» (cfr. Apocalisse 1:8; 21:6; 22:13). Dio non è però soltanto l’inizio e poi la fine, ma colui che ricongiunge l’inizio con la fine, colui cioè che sa guidare le cose perché il suo progetto di bene raggiunga il suo traguardo. Con l’Apocalisse il ciclo si chiude ritornando alle origini, potremmo dire. Ma non sarà un semplice ritorno al passato, sarà un nuovo inizio arricchito della consapevolezza dell’ esperienza del male e della redenzione. Ripartiremo più ricchi e forti per un avvenire di certezze e non più di prove. Con l’Apocalisse il cerchio del male che aveva circondato e soffocato l’Eden viene infranto riaprendo le sue porte sul panorama dell’eternità.
In rapporto all’albero della vita, l’Apocalisse fa una strana affermazione: «Le sue foglie sono per la guarigione delle nazioni» (cfr. Apocalisse 22:2). Il testo non può voler dire che nella nuova terra ci sarà ancora la malattia e che per questo sarà necessario avere strumenti di cura. Ciò è escluso da numerosissimi testi e dal quadro complessivo che ci viene dato della nuova terra. Le malattie dalle quali dobbiamo essere guariti non sono future ma quelle che sperimentiamo nel presente.
L’apostolo Paolo ha insegnato con chiarezza che il momento della parusia è anche il momento della trasformazione del nostro essere: «I morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo mutati» (cfr. 1 Corinzi 15:52). Come comprendere allora la nostra frase? Quando ne vivremo l’esperienza lo sapremo con certezza. Ma oggi possiamo provare a immaginare.
A volte penso al modo in cui siamo fatti. Penso allora che anche se è vero che le malattie scompariranno immediatamente, anche se i ciechi e i sordi recupereranno in un momento la loro vista e il loro udito, forse non tutto sarà radicalmente mutato in un istante. Vi sono aspetti non ideali del nostro essere, ma non moralmente o funzionalmente negativi, che tuttavia fanno ormai parte della nostra identità e che non si possono eliminare in un momento. Alcuni aspetti della nostra personalità non sono ideali, ma non hanno una valenza morale e spirituale negativa. Saranno cambiati in un istante al momento della parusia? Non avremmo difficoltà con il senso della nostra identità? Non sarà meglio che le trasformazioni necessarie si verifichino progressivamente con l’avanzare spontaneo nella nuova esperienza? Ogni razza ha il suo aspetto e il suo colore. Rimarranno o saremo tutti istantaneamente ricondotti alle originali fattezze di Adamo? Il pigmeo e il vatusso rimarranno sempre con la loro statura attuale? Sarà bello anche così e io e i miei amici del Burundi saremo felici di continuare a stare insieme mantenendo i nostri diversi colori. Ma forse Dio ha progetti diversi e il ritorno all’Eden passerà anche per il superamento di queste differenze. Immagino allora che tutto possa avvenire progressivamente, così come progressivamente un bambino si trasforma in uomo, fino a quando tutti i segni, anche fisici, dei limiti imposti alla nostra natura fisica dal peccato non saranno scomparsi.
Ma forse il Signore pensava a qualcosa di diverso. Forse quando parla di nazioni intende proprio i popoli della terra, i gruppi etnici e sociali che compongono la nostra umanità. Anche in essi, nel loro modo di essere, rimarranno forse alcuni segni strutturali della loro esistenza passata. Non avranno certamente una rilevanza morale e non impediranno la piena comunione. Ma saranno il segno di una storia passata che non ha la sua origine nel progetto di Dio. Ci saranno tutte le diversità dovute alle differenze culturali che si sono sviluppate nelle varie epoche e nelle diverse parti del mondo. Non so se Abramo si sentirà totalmente a suo agio vedendo come saremo vestiti e come canteremo. Ma con Dio impareremo a superare i limiti delle differenti culture e le nostre malattie, di qualunque tipo siano, saranno guarite. Il fatto che nel regno di Dio non ci saranno solo individui ma popoli (cfr. Apocalisse 21:24) potrebbe avere un senso a questo riguardo. La riconciliazione del regno di Dio non sarà solo una riconciliazione di uomini, ma di culture, di nazioni. Sarà una riconciliazione della storia.
La memoria del passato
Gli uomini che vivranno nella terra rinnovata non dimenticheranno istantaneamente la loro sto¬ria e le sofferenze che l’hanno caratterizzata. Ma devono dimenticarla? È detto che «non ci si ricorderà più delle cose di prima» (cfr. Isaia 65:17), ma questo non significa che non si avrà più memoria del passato. La memoria è la nostra vita e la nostra identità. Essa sarà necessaria per continuare ad apprezzare la grandezza dell’amore di Dio. Ma la consolazione che avremo asciugherà le lacrime (cfr. Apocalisse 21:4). Il ricordo non sarà più penoso come non è penoso il ricordo del parto in una madre che abbraccia il figlio a cui ha dato la luce.
NOTE:
(1) Seventh-day Adventist Bible Commentary, Review and Herald, Washinghton, D.C., 1955, voI. IV, p. 333.
(2) Perché anche «nuovi cieli»? L’espressione non vuole certo indicare la necessità di un rinnovamento dei cieli, ma piuttosto il fatto che l’esperienza del male, che aveva coinvolto i cieli (gli angeli decaduti) e la terra, è radicalmente superata. Niente nell’universo intero sarà più contaminato dal male.
(3) Le dodici tribù d’Israele non devono ricordare qui solo l’Israele dell’Antico Testamento. Per Giovanni, come per tutto il Nuovo Testamento, il popolo di Dio, le dodici tribù d’Israele, sono ora composte da quanti hanno accettato il Messia promesso, siano essi figli di Abramo secondo la carne o soltanto attraverso la fede: «riconoscete anche voi che coloro i quali hanno la fede, sono figliuoli d’Abramo» (Galati 3:7); «In che modo dunque [la giustizia] gli fu messa in conto? Quand’era circonciso, o quand’era incirconciso? Non quand’era circonciso, ma quand’era incirconciso; poi ricevette il segno della circoncisione, qual suggello della giustizia ottenuta per la fede che aveva quand’era incirconciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono essendo incirconcisi [i non
ebrei], onde anche a loro sia messa in conto la giustizia; e il padre dei circoncisi [gli ebrei], di quelli, cioè, che non solo sono circoncisi, ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abramo…» (Romani 4:10-12).
(4) Tra i tanti testi citabili riportiamo i seguenti dove si parla esplicitamente del fidanzamento tra Dio-Cristo e il suo popolo: 2 Corinzi 11:2; Efesini 5:23-29; Geremia 2:2; Osea2:19.