«Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo» (Ef 4:31-32).
“Se il destino del discepolo è quello di seguire Gesù, questo destino accomuna i credenti a vivere Cristo nella comunione fraterna, nella condivisione della Parola e della vita in generale” (A. Cencini).
Un vecchio contadino era in lite con un suo vicino da ben trent’anni a proposito della collocazione di un recinto. A causa di questa disputa nessuno dei due si decideva a riparare il recinto. Sul letto di morte, il vecchietto decise di mettere le cose a posto. Chiamò sua moglie e le disse: “Per favore, dì ad Abner che sto morendo e che desidero parlargli”.
Non passò molto che la moglie tornò a casa con il vicino Abner. Il vecchio contadino, tutto tremante, disse: “Abner, tu ed io abbiamo litigato per quel recinto per quasi trent’anni. Ho detto diverse cose piuttosto dure sul tuo conto, e voglio dirti che sono terribilmente dispiaciuto. Desidero ristabilire l’amicizia con te prima che io muoia. Mi perdonerai?”.
“Certo che sì disse Abner, con le lacrime agli occhi – Penso che neanch’io abbia detto delle cose tanto belle su di te negli ultimi trent’anni. Sì, credo che sia ora di essere amici”.
Dopo una solenne stretta di mano, l’uomo ammalato puntò il dito verso Abner e gli disse: “Stai attento però, Abner, se io dovessi guarire, dimentica ciò che ti ho detto! La ragione sul recinto è mia!”.[1]
Abbiamo serie difficoltà nel riparare un recinto. Offese, ingiustizie, sentimenti negativi e incomprensioni si sovrappongono per anni da tutti e due i lati. Più invecchiamo e più vorremmo riparare quelle brecce, ma la cosa sembra diventare sempre più difficile da realizzare. Tuttavia, riparare il recinto vuol dire ristabilire i rapporti e questo è ciò che la comunità ha maggiormente bisogno. E il perdono è il passo cruciale nel recupero delle relazioni
Il Nuovo Testamento chiarisce molto bene qual è la volontà di Dio per i suoi figli: anche se dovessero peccare settanta volte sette (Mt 18:22), devono come fratelli e sorelle vivere nel reciproco perdono e onorandosi a vicenda (Rm 12:9-10). La chiesa, corpo di Cristo, vive una fraternità fragile, mai pacifica e scontata, ma sempre inquieta, smaniosa, insofferente e sul punto di rompersi. Ciò significa che quella parola di riconciliazione (2Co 5:18 ) che la chiesa annuncia, la rivolge prima a se stessa, perché solo se è riconciliata potrà annunciare la riconciliazione.
Secondo l’Apostolo Pietro, il fine ultimo del nostro essere fratelli e sorelle è amarci intensamente in vista della beata speranza. «Avendo purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore» ( 1 Pt 1:22; Gv 13:34). La domanda cruciale, allora, è: come vivere l’esperienza della riconciliazione? Come amarsi intensamente di vero cuore?
1. La riconciliazione non è automatica ma intenzionale.
La riconciliazione non avviene automaticamente anche se si frequentano i servizi religiosi regolarmente, si prega, si canta e si partecipa alle attività della chiesa. Le chiese sono piene di persone che hanno frequentato servizi per tutta la vita, che pregano o che hanno perfino battezzato delle persone, eppure, nel tempo hanno creato muri di separazione. Avvolti dalla loro presunzione di essere dalla parte della ragione non si sopportano, litigano in continuazione, non perdonano, ecc.
Pertanto è importante avviare il processo di riconciliazione che consiste nel capire che senza un riesame storico fatto con trasparenza, sincerità di cuore e la dovuta presa di distanza dal peccato, associato al reciproco perdono, non c’è futuro.
In Galati 2:11-14 Paolo dichiara di aver ripreso pubblicamente e con trasparenza Pietro a causa del suo comportamento che minava l’evangelo e la fratellanza .
«Paolo resiste a Pietro in faccia… Quanto sarebbe importante e utile un simile atteggiamento nelle chiese, ove esistono malintesi, fraintendimenti dovuti spesso al timore di dire apertamente le proprie idee a volte contrastanti con quelli degli altri… Occorre accettare il fatto di avere idee diverse, di rispettarle, ma occorre altresì insistere affinché queste vengano espresse nella chiarezza di un dialogo vero e schietto. I malumori o le insoddisfazioni derivanti dal non avere detto tutto per timore del contrasto sono più difficili da risolvere… Paolo non lascia che i problemi nella chiesa si trascinino, li affronta con la dovuta fermezza e questa non è da confondersi con una mancanza d’amore o di cortesia».[2]
La riconciliazione non è automatica, ma intenzionale. Vivere riconciliati è il risultato di un risolutivo impegno. Noi diventiamo tutto quello a cui ci dedichiamo e decidiamo di essere e di fare! Senza un preciso e decisivo impegno ogni tentativo riconciliante sarà casuale e pertanto inadeguato e inconcludente.
2. La riconciliazione non è istantanea, ma un processo spirituale che richiede tempo.
L’idea della «cassa comune»[3] ed altre simili esperienze, vissute in qualche ritiro spirituale, settimana di risveglio o prima di un servizio religioso, quale la cena del Signore, rafforzano il mito che la riconciliazione si possa acquisire in qualche ora sotto l’effetto emotivo del momento. Anche se esistono il caffè istantaneo, il purè di patate istantaneo, e persino metodi dimagranti istantanei, non esiste la riconciliazione istantanea.
Riconciliazione, non è una parola magica capace di porre fine a tutti i problemi relazionali tra noi e noi, noi e Dio e fra noi e il prossimo; se lo fosse basterebbe pronunciarla è in un batter d’occhio «tutti vivrebbero felici e contenti».
La riconciliazione è un processo che richiede tempo, perché bisogna imparare a liberarci di tutti i pregiudizi etnici, culturali e interpersonali che nel corso degli anni hanno caratterizzato il nostro vivere come uomini e donne e fratelli e sorelle. Nonostante il nostro desiderio di accelerare il processo, la riconciliazione è un viaggio che dura tutta la vita, perché la fragilità è la nostra compagna di viaggio e con essa la dolorosa memoria: la nostra memoria è un replay delle nostre ferite emozionali.
3. La riconciliazione non si misura in base a ciò che si conosce e si crede, ma si dimostra con il comportamento.
La vita cristiana non è solo una questione di credenze, di convinzioni e di “alleluia”; include anche la condotta e il carattere. Le credenze devono essere confermate dal comportamento. Le nostre opere devono essere coerenti con le nostre idee e i valori del regno di Dio.
Il Nuovo Testamento insegna ripetutamente che le nostre azioni ed i nostri atteggiamenti rivelano il nostro essere fratelli e sorelle in Cristo più delle nostre affermazioni. Giacomo 2:18 dice schiettamente: «Mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». Giacomo ha anche detto: «Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza» (Gc 3:13). Se la fede non ha cambiato il nostro stile di vita, il nostro modo di vivere insieme, se in fondo siamo come coloro che non hanno la speranza, la nostra fede non vale molto.
Gesù ha detto: «Li riconoscerete dai loro frutti» (Mt 7:16). Sono i frutti, non la conoscenza, che dimostrano il vivere riconciliati. Se noi non mettiamo in pratica quello che sappiamo, stoltamente «costruiamo una casa sulla sabbia» (Mt 7:24-27). La conoscenza biblica è solo una dimensione della riconciliazione. Giacomo dovette avvertire i primi cristiani: «Ma mettete in pratica la parola e non ascoltatela soltanto, illudendo voi stessi» (Gc 1:22).
4. Il perdono è la sola strada percorribile per vivere riconciliati
Il vescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace, nel suo libro Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, riporta che in Sudafrica a seguito di libere elezioni l’apartheid [4]è stata eliminata e al governo sono stati chiamati uomini di colore. Il primo presidente, Nelson Mandela, aveva trascorso in carcere 27 anni perché rivendicava i diritti per i suoi connazionali neri. Per evitare un genocidio, che i neri si vendicassero dei bianchi che li avevano segregati per decenni ed esercitato nei loro confronti violenze inaudite di ogni genere, si è costituita la Commissione della Riconciliazione. Tutti coloro che confessavano spontaneamente i crimini commessi venivano amnistiati. La stragrande maggioranza di chi ha subito ingiustizie, torture, violenze, sofferenze indicibili ha perdonato. Per poterlo fare non ha preteso nessuna punizione inflitta al penitente
Le pagine di questo libro sono lezioni di vera teologia applicata al perdono. Sono una finestra spalancata sul degrado dell’uomo nella sua violenza, ma ci permettono anche di cogliere la sua magnificenza e la sua incredibile altezza e grandezza morale.
Scrive Tutu, «ascoltando, nella Commissione, i racconti di coloro che avevano commesso crimini contro i diritti umani, mi resi conto che in ognuno di noi, nessuno escluso, è insita la capacità di compiere il male. Nessuno di noi può avere la certezza che, esposto alle stesse influenze, agli stessi condizionamenti, non si rivelerebbe identico a quei criminali. Questo non significa condonare o scusare ciò che essi hanno fatto. Significa colmarsi sempre più della compassione di Dio, osservando senza giudicare, e piangendo di tristezza perché uno dei suoi figli si è ridotto a un simile stato. Con profondo sentimento, e non con facile pietismo, dobbiamo dire a noi stessi: “Sarei anch’io come lui, se non fosse per la grazia di Dio”… E ascoltando i racconti delle vittime, rimasi prodigiosamente colpito dalla magnanimità che dimostravano: dopo tanto soffrire, invece di bramare la vendetta, conservavano ancora una straordinaria disponibilità al perdono. Allora ringraziai il Signore nel riconoscere che in tutti noi, e perfino in me stesso, esiste una grandezza d’animo, una generosità, una notevole capacità di fare il bene».[5]
Scrive Smedes, «Il perdono è l’unico modo che abbiamo a disposizione per rendere più bello questo nostro mondo ingiusto. É l’inaspettata rivoluzione dell’amore contro un dolore ingiusto; solo il perdono sa offrire vera speranza per la guarigione delle ferite che ingiustamente ci sono state inflitte».[6]
«Non c’è futuro senza perdono!». Non c’è comunità senza perdono, perché la riconciliazione è l’unica via per la comunione, il dialogo, la creatività e la trascendenza in vista del compimento del regno di Dio.
Una preghiera: «Signore, come tu sulla croce hai perdonato coloro che ti uccidevano e non erano affatto pentiti, anch’io voglio perdonare tutti coloro che mi hanno fatto del male, anche se non mi hanno mai chiesto scusa».
Note:
[1] Cecil G.Osborn, “The Art of Getting Along With People” – Tratto da una serie di conferenze su Genitori e Figli.
[2] F. Alma, Commento ai Galati, istituto Teologico “Villa aurora” – Firenze
[3] La «cassa comune» dovrebbe consistere nel parlarsi con sincerità, pubblicamente. In realtà non ha mai dato i risultati sperati. Compulsivamente i problemi relazionali e interpersonali si ripresentano. Ciò significa che i problemi di fondo permangono perché i rispettivi bisogni non sono stati soddisfatti con delle scelte e strategie adeguate.
[4] Quando, nel 1948, il potere in Sudafrica passò al Partito Nazionale dei discendenti dei coloni olandesi (afrikaner), venne introdotta nel Paese una politica di separazione razziale, nota con il termine di origine boera “apartheid”. Questa prevedeva la divisione di tutti gli ambienti di convivenza tra i bianchi e gli altri gruppi etnici. Negli anni ’50 vennero introdotte leggi apertamente razziste (proibivano, ad esempio, i matrimoni misti). L’apartheid fu condannata ufficialmente dall’ONU nel 1962: i Paesi dell’Organizzazione furono invitati a boicottare economicamente il Sudafrica e a rompere le relazioni diplomatiche. Le popolazioni nere, nel frattempo, si organizzarono in un’opposizione guidata dall’azione del National African Congress. La politica dell’apartheid fu allentata solo negli anni ’80 in seguito alle pressioni internazionali; nel 1994, grazie al presidente Frederik De Klerk e al leader nero Nelson Mandela, si sono avute le prime elezioni libere nel Paese.
[5] Tutu Desmond, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 67-70.
[6] Lewis B. Smedes, “Forgive and Forget: Healing the Hurts We Don’t Deserve” – Tratto da una serie di conferenze su Genitori e Figli.