Di Roberto Badenas *
L’aria vibrava di saluti. Il gruppo stava per intraprendere il cammino. L’equipaggiamento, vario e un po’ precario, veniva sottoposto alle ultime verifiche. I giovani viaggiatori chiacchieravano rumorosamente, tra l’euforia e l’inquietudine, davanti agli imprevisti dell’incognito. In quell’ambiente di speranza appena contenuta era chiaro come il viaggiare sia un atto tipico della gioventù. La curiosità per il nuovo, il bisogno d’avventura, la sfida ai rischi prevalgono, nel viaggiatore e nel giovane, sulle sicurezze, sul conosciuto, sulla comodità delle cose abituali e sulla tranquillità delle consuetudini, valori propri del sedentario e del vecchio. Ama viaggiare chi è disposto a spostarsi e pertanto a trovarsi in luoghi diversi, a mettersi in questione, ad apprendere e a cambiare. Gesù guardava i suoi compagni di viaggio e sorrideva. Tuttavia, come chi si sente diviso tra ciò che è e ciò che spera, continuò a occuparsi dei bambini che carambolavano ai suoi piedi, giocando per trattenerlo e rideva con loro, tra carezze e burle.
Abituato alle strade, davanti a lui si apriva una volta di più, una nuova via. Ferma e urgente, incerta all’orizzonte, come tutte le vocazioni. Gesù aveva scelto un ministero di movimento: il cuore e il respiro degli altri erano il ritmo che scandiva i suoi passi. In un certo senso, la sua vocazione era camminare, andare incontro all’uomo, invitarlo, anche attenderlo, sempre con lo scopo di aiutarlo a trovare il suo cammino. Per questa ragione, vedere quel pugno di giovani disposti a seguirlo nelle sue peregrinazioni, nei curvilinei e impervi sentieri di questo mondo, gli dava un’intensa emozione. Avevano lasciato tutto per seguirlo. Quanti avrebbero continuato a farlo sino alla fine?
Era il momento di partire. Un semplice gesto fu sufficiente perché tutti raccogliessero i bagagli e si mettessero in cammino. Nessuno domandò qual era la destinazione. Sulla base della loro pur breve esperienza, sapevano che seguendo Gesù in una nuova tappa del suo viaggio, avrebbero vissuto avvenimenti appassionanti, quanto imprevedibili.
Immediatamente qualcuno, correndo attraverso il gruppo, si avvicina rispettosamente a Gesù, come per comunicargli qualcosa di urgente. Nel suo sguardo c’è tanta preoccupazione, che questi si mette da una parte per aspettarlo, con quella assoluta disponibilità che solo si incontra nei consiglieri per vocazione. La prima cosa che colpisce di lui è la sua giovinezza. Entra in scena correndo. E correre in pubblico era considerato un atto improprio per un adulto della sua classe. Il testo precisa che si tratta di un uomo importante ed estremamente ricco. Anche la sua domanda è caratteristica di un giovane, diretta e acuta, ardita, lanciata a bomba, in tutta spontaneità: «Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
Risulta difficile formulare una domanda più importante, e nello stesso tempo impostarla meglio. Non dice infatti: «Che cosa devo fare per guadagnare la vita eterna?». Sa molto bene che la salvezza non si merita ma la si riceve. Parte da una teologia corretta e sceglie la parola giusta: ereditare. Ricevere gratis qualcosa per cui non si è lavorato. Accettare qualcosa che ci viene dato. La vita eterna è un dono meraviglioso. È un giovane intelligente, erede di una grande fortuna, ma si sente insoddisfatto. Possiede molte cose, ma non è felice: gli manca la pace. Le sue ricchezze gli rendono sicura questa vita, ma nulla lo rassicura per l’altra. Questo gli procura una totale inquietudine.
Come molti nostri contemporanei, è colmo di beni materiali, ma vuoto spiritualmente. Non vive pienamente. Spinto dalla sua insoddisfazione, si avvicina a Gesù. Non sappiamo nulla di precedenti colloqui, né se abbia in precedenza seguito da lontano o da vicino le sue vicende, né se conoscesse Gesù da molto o poco tempo. Sappiamo che si decide a cercarlo, nonostante il fatto che non è facile aprirsi a qualcuno quando si hanno problemi esistenziali. Gesù quasi gli sfugge! Deve di rincorrerlo. Solo in extremis riesce a raggiungerlo e a porgli una domanda dalla quale si indovina, ben oltre l’inquietudine intellettuale, una intensa lotta interiore, sullo sfondo di dubbi e timori. Anche il suo saluto sorprende: «Maestro buono…». Sentiamo che lo chiama «Maestro», perché è proprio una guida spirituale che cerca. Ma perché lo chiama «buono»?
Senza dubbio è rimasto impressionato dalle sue qualità. Paragonato agli altri maestri, Gesù gli sembra decisamente migliore. Più integro, più sincero e, molto importante, più felice. Possiede ciò che egli desidera: la forza morale, l’armonia interiore. Il segreto di ciò che vorrebbe avere. Di ciò che vorrebbe essere. Il suo interlocutore senza indugio gli chiede una spiegazione: «Perché mi chiami buono? L’unico a essere assolutamente buono è Dio».
Secondo alcuni interpreti, con questa dichiarazione, Gesù desidera affermare la sua divinità. Come se dicesse: «Se mi chiami buono, e l’unico buono è Dio, significa che riconosci, o che devi riconoscere, che io sono Dio».
Questa spiegazione non risulta molto convincente, perché negli Evangeli non troviamo prove che Gesù intenda imporre la sua divinità a nessuno. Sembra piuttosto suggerire: «Vedi, se qualcuno è buono, come io ti sembro, può esserlo a causa del contatto con la fonte della bontà. Solo lui può risolvere il problema che ti preoccupa. Se intervengo, è perché credo di poterti aiutare a comprendere meglio chi egli è, che cosa può fare per te, che cosa si aspetta da te».
La domanda del giovane continua a vibrare, urgente, nell’aria: «Non posso pensare di rassegnarmi al fatto che la mia vita debba concludersi, nel momento in cui meno me l’aspetto, con la morte. Che cosa devo fare per assicurarmi la vita eterna?». Questo giovane si preoccupa della grande questione dell’aldilà, quest’incognita che, dalle origini dell’umanità, ogni essere umano si è posto almeno una volta.
Gesù gli risponde in due fasi distinte. Intuendo qual è il suo problema, in primo luogo lo rimanda agli insegnamenti fondamentali della Rivelazione. Opera una selezione tra i comandamenti e ne ricorda alcuni che si riferiscono alle relazioni umane: «Per la nostra felicità, Dio ci propone la migliore filosofia di vita. Tu conosci la Sacra Scrittura. Senza dubbio conosci a memoria i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, onora tuo padre e tua madre…”. L’ideale è lasciarsi guidare da Dio in tutto quello che facciamo».
Il giovane, che si crede un religioso praticante, rimane deluso e sconcertato da una risposta simile; non vi discerne nulla di nuovo. Non gli sembra la formula adatta per ottenere la serenità che cerca. Forse con un tono molto diverso rispetto alla prima domanda, replica: «Tutto questo ho cercato di farlo sin da piccolo. Sapevo già che l’umanità sarebbe più felice se rispettasse i comandamenti divini. Ho bisogno che tu mi dica perché mi sento vuoto anche quando pratico la mia religione.
Credo di prendere sul serio la religione. Osservo la Legge meglio che posso. Frequento le riunioni ecclesiastiche. Prego regolarmente… e, alla fine, sono insoddisfatto. Sento imperiosamente il bisogno di qualcosa di più. I miei sforzi, lo vedo, non mi portano a nulla. La mia vita rimane distante dai miei ideali. Ed è proprio l’ideale che voglio conseguire. Che cosa posso fare di più?». Nella seconda fase, profonda e intensa, del colloquio, tutta l’emozione provata da Gesù si riassume in tre verbi: «Lo guardò, lo amò, gli disse…».
Il suo sguardo penetrante vede, nella delusione di quel giovane promettente, tante possibilità; non può non apprezzarlo. Soppesando con cura le parole, gli dice, come desiderando il meglio per lui: «Ti manca solo una cosa…». Sconcertato, il cuore sussulta in attesa della tanto desiderata risposta. «Solo una cosa? Eppure mi sembrava che mi mancasse così tanto…?».
La sua mente è come in ebollizione. Senza dubbio ciò che meno si aspetta di sentire è quella che sembra una delle esortazioni più dure contenute nell’Evangelo. «Vai, vendi i tuoi beni, dalli ai poveri, poi vieni e seguimi».
Sorprendente paradosso. Per colmare il vuoto che avverte dentro, deve prima privarsi di tutto. Parole esigenti ma logiche: «Se quello che hai non ti rende felice, lascialo per qualcosa di meglio». Gesù sa che non esiste felicità nell’egoismo. Nel centro della tua vita, o c’è Dio o ci sei tu. E se tu continui a dar retta ai valori del mondo in cui vivi, seguiterai a girare intorno a te stesso, alle tue povere icchezze; e mai potrai sentirti pienamente soddisfatto. Ti mancherà sempre l’essenziale.
L’adorazione dell’io è un culto esigente che non porta da nessuna parte. L’io non si sazia mai. Solo Dio può saziare l’inestinguibile sete dell’anima umana. Se vuoi la vita eterna, lasciale ora uno spazio nella tua vita. Per ottenere la pace, il giovane doveva rifondare la sua esistenza su nuove basi spirituali: rinunciare all’indifferenza e smettere di vivere solo per sé, pur vivendo in mezzo a tanti infelici e bisognosi. Non è possibile rinunciare all’amore spropositato di sé senza aprirsi all’amore verso il prossimo. Neppure aspirare a partecipare a una illimitata felicità senza desiderare di condividerla con qualcuno… Il giovane aveva bisogno di apprendere che la vera religione non consiste nella pratica di una serie di regole morali, ma nel vivere una relazione fino alle estreme conseguenze.
All’intellettuale che gli domanda «Qual è, secondo te, il comandamento più importante della Legge?», in altre parole: «In che cosa consiste l’essenza della nostra religione?», Gesù risponderà, riassumendo l’intera Rivelazione nelle due relazioni tra loro inseparabili: una piena comunione con Dio («Amerai il Signore Iddio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la mente tua») e una relazione davvero fraterna con il prossimo («Amerai il prossimo tuo come te stesso»).
Una vita spirituale intensa si concepisce in questi termini. Una religione che si limita a un sistema di dottrine può arrivare a essere un insieme di formalismi e di alienazioni, come la storia passata e quella contemporanea dimostrano perfettamente. Mentre una fede vivente e basata sulla doppia relazione d’amore, cioè di profondo rispetto verso Dio e l’uomo, mai potrà diventare il famigerato «oppio dei popoli». Tanto meno uno strumento di manipolazione in mano a qualcuno.
Osserviamo che Gesù non fonda la sua visione religiosa in termini di credere , ma in termini di amare . Per lui essere credenti non è essere fedeli a un credo, ma essere fedeli a Dio e all’uomo. Inevitabilmente la fedeltà a Dio porta all’accettazione di tutti i suoi insegnamenti. Tuttavia ciò che caratterizza il discepolo di Gesù non risiede nella sua confessione di fede, ma nel suo vivere l’esperienza globale dell’amore. Fino al punto che i segni che lo identificano non si riferiranno a nozioni teologiche ma a relazioni umane. «Da questo riconosceranno che sono miei discepoli: perché si amano gli uni con gli altri». Cristiano è chi cerca di vivere e amare come Cristo.
A differenza delle tante sette che proliferano nel mondo, e soprattutto a differenza delle chiese di massa, la cui affiliazione non è il risultato di un’adesione volontaria, ma imposta alla nascita, il fondatore del cristianesimo non definisce la sua religione in termini di ortodossia (cioè in questioni di credenze esatte), ma piuttosto in termini di ortoprassi (cioè in termini di relazioni e atteggiamenti veri, significativi).
Per questa ragione dice al giovane ricco: «Una cosa ti manca: condividi le tue ricchezze e seguimi. Non ti serve un nuovo esercizio spirituale, ma un atto di totale umanità. Ciò che ti manca non è un nuovo programma, ma una nuova via. Non si tratta di migliorare la tua vita, ma di ricevere una vita nuova». Le persone che non hanno vissuto un’esperienza di fede profonda e che conoscono solo le forme esterne di una delle numerose religioni, pensano che sia caratteristico di chi crede una sorta d’immobilismo, una sottomissione incondizionata a una tradizione.
Al contrario Gesù insegna che la fede è innanzitutto un inizio. Per lui è un cristiano, nel senso stretto del termine, colui che, avendo accolto il suo invito a seguirlo liberamente, diviene capace di lasciare tutto per seguirlo… dovunque lo guidi, anche – ma non necessariamente – piuttosto lontano dai sentieri battuti delle sue credenze.
L’invito rivolto a questo giovane era molto simile a quello ricevuto secoli prima da Abramo, che fu chiamato «il padre di tutti i credenti» perché fondò i suoi valori proprio sull’incognita della chiamata divina. Lasciando il suo contesto familiare pagano, egli si mise in marcia verso la terra promessa. La cosa importante non era il punto di partenza, né l’itinerario, ma la destinazione. Nell’accettare il rischio insito nell’intraprendere quel viaggio, scoprì un nuovo cammino e un nuovo orizzonte. Una nuova vita, paradossalmente più sicura perché guidata da Dio, e realmente più libera, se paragonata al suo passato; più autentica perché contraddistinta dalla verità; assai più ricca perché aperta alla vita.
Come molti, anche quel giovane conduceva la sua esistenza senza scopo, lasciandosi andare alla corrente. Fino a quando incontrò la guida che cercava. Ma nel momento in cui doveva intraprendere quel nuovo cammino, la vertigine causata dal dover recidere gli ormeggi gli impedì la decisione. Gesù avrebbe desiderato una reazione favorevole alla sua chiamata. In silenzio attendeva un gesto di coerenza. «Il giovane, udendo quelle parole, abbassò gli occhi e se ne andò, perché aveva molte ricchezze». Non comprese che Gesù non voleva spingerlo alla rovina ma, al contrario, gli offriva il migliore degli scambi. Non comprese che al posto dei beni materiali avrebbe ricevuto altre ricchezze, che sarebbero aumentate se le avesse condivise. Non si rese conto che le persone più povere esistenti sono quelle che hanno solo del denaro, e che c’è maggiore felicità nel dare che nel ricevere. Non capì che lanciarsi in quell’avventura con Gesù valeva molto di più che restarsene nel suo castello senza di lui. La sua indecisione mise in evidenza che forse era molto forte socialmente, ma che non era affatto libero.
Paradossalmente apparteneva ai suoi possedimenti. Tutte le sue potenzialità erano incatenate al suo conto corrente, fino al punto che le cose transitorie non gli permettevano di diventare erede di quelle eterne. Dimostrò di non essere poi così giovane come sembrava. Le sue ricchezze avevano avviato in lui un processo d’invecchiamento precoce, che gli impediva di intraprendere, con Gesù, il viaggio della sua vita. Non era neanche così ricco come credeva, se è vero che ciò che aveva gli impediva di acquisire quello che gli mancava per essere felice: in fondo, proprio quello che lo avrebbe mantenuto giovane e ricco per sempre. Riprendendo il cammino con i suoi compagni di viaggio, Gesù tace, guardando con tristezza il giovane che si allontana, triste anche lui, nella direzione sbagliata. Restava lì e si perdeva – forse in tutti i sensi – nell’orizzonte della sua immobilità sedentaria, incapace di recidere le sue catene… d’oro.