Il tema del giudizio finale nel libro dell’Apocalisse riveste un ruolo importante perché rappresenta il modo in cui Dio risolve l’opposizione del male contro di sé e contro il suo popolo. Non sorprende che quanti accettano l’idea del «fuoco eterno» trovino sostegno per la loro posizione nelle drammatiche immagini del giudizio finale di questo libro.
Le parti citate per sostenere la punizione eterna nell’inferno sono due: la visione dell’ira di Dio di Apocalisse 14:9-11, e la visione del lago di fuoco e della morte seconda di Apocalisse 20:10,14,15.
La visione dell’ira di Dio
In Apocalisse 14, Giovanni vede tre angeli che annunciano il giudizio finale di Dio in un linguaggio progressivamente più forte. Il terzo angelo grida con gran voce: «Chiunque adora la bestia e la sua immagine, e ne prende il marchio sulla fronte o sulla mano, egli pure berrà il vino dell’ira di Dio versato puro nel calice della sua ira; e sarà tormentato con fuoco e zolfo davanti ai santi angeli e davanti all’Agnello. Il fumo del loro tormento sale nei secoli dei secoli. Chiunque adora la bestia e la sua immagine e prende il marchio del suo nome, non ha riposo né giorno né notte» (Ap 14:9-11).
I tradizionalisti considerano questo passo e quello di Matteo 25:46, i più importanti dove si afferma la dottrina dell’inferno. Robert A. Peterson termina l’analisi di questo passo dicendo: «Concludo, perciò, che nonostante i tentativi da parte di alcuni di spiegare diversamente le cose, Apocalisse 14:9-11 insegna, irrevocabilmente, che l’inferno implichi un eterno tormento cosciente dei dannati. Infatti, se avessimo solo questo passo, saremmo obbligati a insegnare la dottrina tradizionale dell’inferno sull’autorità della Parola diDio»[1]. Robert Morey categoricamente sostiene la medesima opinione: «Per ogni regola di ermeneutica ed esegetica, l’unica interpretazione legittima di Apocalisse 14:10,11 è quella che vede chiaramente il tormento eterno cosciente per gli empi»[2].
Queste interpretazioni dogmatiche di Apocalisse 14:9-11, come prova di un tormento letterale ed eterno, non tengono conto del linguaggio altamente metaforico del brano. Nel suo commentario sull’Apocalisse, J.P.M. Sweet, studioso britannico del Nuovo Testamento, fa un commento molto equilibrato: «Nel chiedersi che cosa insegni l’Apocalisse, sul tormento eterno o la distruzione eterna, significa usare il libro come fonte «dottrinale» che contiene informazioni circa il futuro. Giovanni usa le immagini, come Gesù usava le parabole (cfr. Mt 18:32-34; 25:41-46), per far capire il disastro inimmaginabile che deriva dal rifiuto di Dio, e l’impensabile beatitudine dell’unione con lui, mentre c’è ancora tempo per compiere una scelta in questo senso»[3].
È spiacevole che questo avviso venga ignorato da quanti scelgono di interpretare letteralmente un brano così ricco di metafore.
Quattro elementi del giudizio
A questo punto, si tratta di esaminare i quattro elementi maggiori nell’annuncio del giudizio di Dio circa coloro che adorano la bestia:
a. Il versare e il bere dal calice dell’ira di Dio;
b. Il tormento con fuoco e zolfo davanti agli angeli e all’Agnello;
c. Il fumo del loro tormento che sale per sempre;
d. Il fatto che non hanno requie né giorno, né notte.
a. Calice dell’ira di Dio
La mescita del calice dell’ira di Dio è un simbolo già presente nei passi dell’Antico Testamento in relazione al giudizio di Dio (cfr. Is 51:17,22; Ger 25:15-38; Sal 60:3; 75:8). Dio versa il calice «puro», cioè non diluito, per garantirne gli effetti mortali. I profeti hanno usato un linguaggio simile: «Risvegliati, risvegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto il calice, la coppa di stordimento, e l’hai succhiata sino in fondo!» (Is 51:17; cfr. Ger 25:18,27,33). Lo stesso calice dell’ira di Dio è offerto a Babilonia, la città che corrompe il popolo. «Nel calice in cui ha versato ad altri, versatele il doppio» e il risultato è «morte, lutto e fame» e distruzione (Ap 18:6,8). La fine di Babilonia, distrutta dal fuoco, simboleggia anche la fine degli empi che bevono il calice puro di Dio.
b. Fuoco e zolfo
La sorte degli empi è descritta attraverso le immagini del giudizio più terribile che si sia abbattuto su questa terra, la distruzione mediante fuoco e zolfo di Sodoma e Gomorra. «Sarà tormentato con fuoco e zolfo davanti ai santi angeli e davanti all’Agnello» (Ap 14:10). Le immagini del fuoco e dello zolfo che hanno distrutto queste due città sono frequentemente usate nella Bibbia per indicare l’annientamento totale (cfr. Gb 18:15,17; Is 30:33; Ez 38:22).
c. Il fumo del loro tormento
Isaia descrive la sorte di Edom con un linguaggio singolarmente simile a quello di Apocalisse 14:10: «I torrenti di Edom saranno mutati in pece, la sua polvere in zolfo, la sua terra diventerà pece ardente. Non si spegnerà né notte né giorno» (Is 34:9,10). Come in Apocalisse 14:10, siamo in presenza del fuoco inestinguibile, dello zolfo e del fumo che sale per sempre, notte e giorno. Questo significa che Edom doveva bruciare per sempre? Non dobbiamo andar lontano per trovare la risposta perché il versetto continua: «Rimarrà deserta, nessuno vi passerà più» (Is 34:10). È evidente che il fuoco inestinguibile e il fumo che sale perennemente non siano altro che simboli metaforici della completa distruzione, dello sterminio e dell’annichilimento.
Se questo è il significato dell’immagine nell’Antico Testamento, si può ragionevolmente credere che lo stesso significato si possa applicare al testo in esame. Questa conclusione è sostenuta da Giovanni che usa le immagini del fuoco e del fumo per descrivere la sorte di Babilonia responsabile della seduzione del popolo di Dio all’apostasia. La città «sarà consumata dal fuoco» (Ap 18:8) e «il suo fumo sale per i secoli dei secoli» (Ap 19:3). Questo significa che Babilonia brucerà per tutta l’eternità? Ovviamente no, perché i mercanti e i re piangeranno per il «tormento» che vedono, e diranno: «Ahi! ahi! Babilonia, la gran città… è stata distrutta… In un attimo è stata ridotta a un deserto… e non sarà più ritrovata» (Ap 18:10,16,19,21). È evidente che il fumo del tormento di Babilonia che «sale nei secoli dei secoli» rappresenta la completa distruzione perché la città «non sarà più ritrovata» (Ap 18:21). La singolare somiglianza fra la sorte degli empi e quella di Babilonia, entrambe dovute al fuoco il cui fumo «sale nei secoli dei secoli» (Ap 14:10,11; cfr. 18:8; 19:3), autorizza a credere che il destino di Babilonia rappresenti anche quello di quanti abbiano partecipato ai suoi peccati. La città e gli apostati sperimenteranno la stessa distruzione e lo stesso annichilimento.
d. «Non ha riposo né giorno né notte»
La frase «non ha riposo né giorno né notte» (Ap 14:11) è interpretata dai tradizionalisti come descrittiva del tormento eterno dell’inferno. La frase, comunque, indica la continuità e non la durata eterna di un’azione. Giovanni usa la stessa frase «giorno e notte» per descrivere le creature viventi che lodano Dio (Ap 4:8), i martiri che servono Dio (Ap 7:15), Satana che accusa i fratelli (Ap 12:10) e l’empia trinità che è tormentata nel lago di fuoco (Ap 20:10). In ogni caso, il pensiero è lo stesso: l’azione è continua finché dura. Harold Guillebaud spiega correttamente che la frase «non ha riposo né giorno né notte» (Ap 14:11) «certamente dice che non vi sarà nessuna pausa o intervallo nella sofferenza dei seguaci della bestia, mentre continua; ma non dice che continuerà per sempre»[4].
Questa conclusione poggia sull’uso della frase «giorno e notte» in Isaia 34:10, dove, come si è già visto, il fuoco di Edom è acceso «notte e giorno» e «il fumo ne salirà per sempre» (Is 34:10). Le immagini sono poste lì per comunicare che il fuoco di Edom continuerà fino a consumare tutto e poi si spegnerà. Il risultato è la totale distruzione e non il bruciare eternamente. «Di età in età rimarrà deserta» (Is 34:10).
Quindi, le quattro rappresentazioni nella scena di Apocalisse 14:9-11 sono complementari alla descrizione della distruzione finale degli empi. Il vino «puro» dell’ira di Dio versato suggerisce un giudizio che termina con l’estinzione. Lo zolfo e il fuoco indicherebbero un livello di punizione cosciente che precede la fine. Il fumo che sale è il ricordo continuo del giusto giudizio di Dio. La sofferenza continuerà giorno e notte fino a quando gli empi saranno completamente distrutti.
Lo stagno di fuoco e la morte «seconda»
L’ultima descrizione nella Bibbia della punizione finale contiene due espressioni metaforiche altamente significative: lo stagno di fuoco e la morte seconda (cfr. Ap 19:20; 20:10,15; 21:8). I tradizionalisti attribuiscono una fondamentale importanza allo «stagno di fuoco» perché per loro, come afferma John F. Walvoord, «lo stagno di fuoco è, e serve come sinonimo per il luogo del tormento eterno»[5].
a. Lo stagno di fuoco
Per determinare il significato dello «stagno di fuoco», bisogna esaminare le quattro volte in cui è presente nell’Apocalisse, unico libro nella Bibbia dove si trova questa espressione. Il primo riferimento si trova in Apocalisse 19:20, dove viene detto che la bestia e il falso profeta «furono gettati vivi nello stagno ardente di fuoco e di zolfo». Il secondo riferimento si trova in Apocalisse 20:10, dove Giovanni descrive la conseguenza dell’ultimo grande assalto di Satana contro Dio: «E il diavolo che le aveva sedotte fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta; e saranno tormentati giorno e notte, nei secoli dei secoli». Quando Dio getta il diavolo nello stagno di fuoco, viene così ad aumentare i suoi abitanti da due a tre. Il terzo e il quarto riferimento si trovano in Apocalisse 20:15 e 21:8, dove tutti gli empi sono anch’essi gettati nello stagno di fuoco. È evidente che si assiste a un crescendo: tutte le potenze malefiche insieme agli esseri umani ribelli, sperimenteranno la punizione finale nello stagno di fuoco.
La domanda fondamentale rimane questa: lo stagno di fuoco, rappresenta un inferno che brucia sempre e dove gli empi dovrebbero essere tormentati per tutta l’eternità, oppure simboleggia la distruzione permanente del peccato e dei peccatori? Quattro maggiori considerazioni portano a credere che lo stagno di fuoco rappresenti l’annichilimento finale e completo del male e dei malfattori.
– La bestia e il falso profeta, che sono gettati vivi nello stagno di fuoco, sono due personaggi simbolici, non persone fisiche ma autorità politiche e religiose, responsabili delle persecuzioni e la mistificazione della religione. I sistemi politici e religiosi non possono soffrire un tormento perenne. Quindi, per loro, lo stagno di fuoco rappresenta la distruzione completa e irrevocabile.
– Le immagini del diavolo e del suo esercito, che sono distrutti da fuoco dal cielo e poi gettati nello stagno di fuoco e di zolfo, sono prese in prestito dal libro del profeta Ezechiele (cfr. 38:39) dove si trovano persino i nomi in codice «Gog» e «Magog». Mentre in 2 Re 1:10 si parla di un fuoco che scende dal cielo per consumare il capitano e i cinquanta soldati mandati contro Elia. In ambedue i casi, il fuoco causa l’annichilimento (cfr. Ez 38:22; 39:6,16). La similitudine delle immagini suggerisce che lo stesso significato e funzione del fuoco, come assoluta distruzione, si applica alla sorte del diavolo in Apocalisse 20:10.
– È impossibile immaginare in che modo il diavolo e i suoi angeli, che sono spiriti, possano essere «tormentati (con il fuoco) giorno e notte per sempre» (Ap 20:10). Dopo tutto, il fuoco appartiene al mondo materiale, fisico, mentre il diavolo e i suoi angeli non sono esseri fisici. George Eldon Ladd giustamente dice: «È impossibile immaginare come uno stagno di fuoco letterale possa causare eterna tortura a esseri non fisici. È ovvio che siamo in presenza di un linguaggio pittoresco che descrive un fatto reale all’interno di un mondo spirituale: la distruzione finale ed eterna delle potenze del male che hanno tormentato l’umanità sin dal giardino d’Eden»[6].
– Il fatto che la «morte e l’ades vengono gettati nello stagno di fuoco» (Ap 20:14), vuol dire che il significato dello stagno di fuoco è simbolico, perché la morte e l’ades (la tomba) sono realtà astratte che non possono essere gettate nel fuoco o da esso consumate. Attraverso l’immagine della morte e dell’ades che sono gettati nello stagno di fuoco, Giovanni semplicemente afferma la distruzione finale e completa della morte e dello sheol ebraico. Ora, mediante la morte e la risurrezione, Gesù ha vinto la potenza della morte, ma la vita eterna non può esser sperimentata finché la morte non sia simbolicamente distrutta nello stagno di fuoco e bandita dall’universo.
b. «La morte seconda»
Prima di riflettere su quest’ultima considerazione, è importante insistere sul fatto che Giovanni identifica lo stagno di fuoco con la morte seconda. «Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco» (Ap 20:14; cfr. 21:8).
Alcuni tradizionalisti interpretano «la morte seconda», non come la morte definitiva, ma come la separazione definitiva dei peccatori da Dio. Per esempio, Robert A. Peterson afferma: «Quando Giovanni dice che “la morte e l’ades furono gettati nello stagno di fuoco” (Ap 20:14), indica che lo stato intermedio lascia il posto allo stato finale. Dice questo, rivelando che lo “stagno di fuoco è la morte seconda” (Ap 20:14). Siccome la morte significa separazione dell’anima dal corpo, così la morte seconda indica la separazione definitiva degli empi dall’amore del loro Creatore. Di conseguenza, Dio riunisce le anime dei morti non salvati ai loro corpi, per preparare i perduti a subire la punizione eterna. Se la vita eterna significa conoscere per sempre il Padre e il Figlio (Gv 17:3), la sua antitesi, la morte seconda, significa esser privati della comunione con Dio per tutta l’eternità»[7].
È difficile capire come Peterson possa interpretare «la morte seconda» come separazione cosciente ed eterna da Dio quando, come abbiamo visto in precedenza, la Bibbia indica molto chiaramente che non c’è nessuna consapevolezza nella morte. La «morte seconda» è l’antitesi della «vita eterna», ma l’antitesi della vita eterna è la «morte eterna» e non l’eterna separazione consapevole da Dio. Inoltre, la nozione delle anime dei perduti, che sono riunite con i loro corpi dopo lo stato intermedio, per prepararli alla punizione eterna, può solo essere sostenuta sulla base di una comprensione dualistica della natura umana. Secondo la prospettiva biblica, la morte costituisce la cessazione della vita e non la separazione del corpo dall’anima.
Il senso della frase «morte seconda», dev’essere determinato sulla base della testimonianza interna del libro dell’Apocalisse e della letteratura ebraica contemporanea, piuttosto che sulla base del dualismo greco,
estraneo alla Bibbia. Attraverso tutto il libro dell’Apocalisse, Giovanni spiega il significato di un primo termine mediante l’uso di un secondo. Per esempio, spiega che le coppe di incenso sono le preghiere dei santi (Ap 5:8). «Il lino fino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19:8). La vita futura dei santi e il loro regno con Cristo per mille anni «è la prima risurrezione » (Ap 20:5). Allo stesso modo spiega esplicitamente che «lo stagno di fuoco è la morte seconda» (Ap 20:14; cfr. 21:8).
Alcuni tradizionalisti definiscono la morte seconda come lo stagno di fuoco sostenendo che essa non costituisca la morte finale, ma l’eterno tormento. È necessaria una lettura veloce di Apocalisse 20:14 e 21:8 per dimostrare che è vero l’opposto. Giovanni chiaramente afferma: «Lo stagno di fuoco è la morte seconda» e non il contrario. Il significato della morte seconda deriva e dipende dal significato della prima morte sperimentata da ogni essere umano alla cessazione della vita. La morte seconda è diversa dalla prima morte, non in natura ma nel risultato. La prima morte è un sonno temporaneo perché è seguita dalla risurrezione. La morte seconda è la fine irrevocabile che non è seguita da nessun risveglio.
Riferimenti alla «morte seconda
Dal momento che Giovanni chiaramente definisce lo stagno di fuoco come la morte seconda, è importante che si capisca il suo significato. Questa frase appare quattro volte in Apocalisse, mentre non appare in nessun altra parte del Nuovo Testamento. Il primo riferimento si trova in Apocalisse 2:11: «Chi vince non sarà colpito dalla morte seconda». Qui «la morte seconda» è differenziata dalla morte fisica che ogni essere umano sperimenta. L’implicazione è questa: i salvati riceveranno la vita eterna e non sperimenteranno la morte eterna.
Il secondo, lo troviamo in Apocalisse 20:6, nel contesto della prima risurrezione dei santi all’inizio del millennio: «Su di loro non ha potere la morte seconda». Di nuovo, l’implicazione è che i santi risuscitati non sperimenteranno la morte seconda, cioè quella definitiva, ovviamente, perché risusciteranno a vita eterna. Il terzo e il quarto sono in Apocalisse 20:14 e 21:8, dove la morte seconda è identificata con lo stagno di fuoco nel quale il diavolo, la bestia, il falso profeta, la morte, l’ades, e tutti i malfattori sono gettati. In questi casi, lo stagno di fuoco è la morte seconda nel senso che adempie la morte e la distruzione eterna del peccato e dei peccatori.
La morte seconda nel Targum
Il significato della frase «morte seconda» è meglio chiarito dall’uso che viene fatto nel Targum, che è la traduzione e l’interpretazione aramaica dell’Antico Testamento. Nel Targum la frase è usata varie volte con riferimento alla morte finale e irrevocabile degli empi. Secondo Strack Billerbeck, il Targum su Geremia 51:39,57 contiene un oracolo contro Babilonia e dice: «Moriranno alla morte seconda e non vivranno nel mondo futuro». Qui la morte seconda è chiaramente la morte che risulta dal giudizio finale che impedisce ai malfattori di vivere nel mondo futuro.
Nel suo studio The Testament and the Palestinian Targum to the Pentateuch, M. McNamara cita il Targum su Deuteronomio 33:6, Isaia 22:14 e 65:6,15, dove la frase «morte seconda» è usata per descrivere la morte definitiva, irrevocabile. Il Targum su Deuteronomio 33:6 dice: «Lascia vivere Ruben in questo mondo e non farlo morire nella morte seconda nella quale gli empi muoiono nel mondo futuro»[8].
Nel Targum su Isaia 22:14, il profeta dice: «“No, questa iniquità non la potrete espiare che con la vostra morte” dice il Signore, DIO degli eserciti»[10]. In entrambi i casi, «la morte seconda» è la distruzione definitiva che gli empi sperimentano al giudizio finale. Il Targum su Isaia 65:6 è molto simile in Apocalisse 20:14 e 21:8: «La loro punizione sarà nella geenna dove il fuoco brucia tutto il giorno. Ecco, è scritto davanti a me: “Non darò loro sollievo durante (la loro) vita ma renderò loro la punizione delle loro trasgressioni e darò i loro corpi alla morte seconda”»[11]. Di nuovo, il Targum su Isaia 65:15 dice: «E abbandonerete il vostro nome per un flagello ai miei eletti e il Signore Dio vi ucciderà con la morte seconda ma i suoi servi, i giusti, li chiamerà con un nome diverso»[12]. Qui, la morte seconda, è esplicitamente eguagliata all’uccisione degli empi dal Signore, un’immagine chiara della distruzione finale e non del tormento eterno.
Alla luce delle considerazioni precedenti si può concludere che la frase «la morte seconda» sia usata da Giovanni per definire la natura della punizione nello stagno di fuoco, cioè, una punizione che alla fine risulta nella morte eterna, irrevocabile. Come indica Robert Mounce: «Lo stagno di fuoco indica non solo la punizione severa che spetta ai nemici della giustizia, ma anche la loro sconfitta completa e finale. È la morte seconda, cioè il destino di coloro la cui risurrezione temporanea risulta solo in un ritorno alla morte e alla sua punizione»[13].
La stessa opinione è condivisa anche da Henry Alford che scrive: «Nel modo che c’è una seconda vita più alta, così c’è anche una morte seconda e più profonda. E così come dopo quella vita non c’è più morte (Ap 21:4), così dopo quella morte non c’è più vita»[14].
Questa della «morte seconda», come morte finale e irrevocabile, è una definizione che merita di essere considerata. Interpretare in maniera diversa questa frase, come eterno tormento cosciente o separazione da Dio, significa negare il significato biblico della «morte» come cessazione della vita.
Conclusione
Volendo concludere quest’indagine sull’opinione tradizionale dell’inferno come luogo di punizione eterna e letterale degli empi, si possono fare tre considerazioni:
– Il concetto di inferno è fortemente dipendente dalla visione dualistica della natura umana che ammette la sopravvivenza eterna dell’anima sia nella beatitudine celeste sia nel tormento. È già stato posto in evidenza come questo dogma sia estraneo all’uomo biblico che è indivisibile e completo, dove la morte indica la cessazione di vita per la persona nel suo insieme.
– L’inferno secondo la tradizione si basa su un’interpretazione letterale delle immagini simboliche come la geenna, lo stagno di fuoco e la morte seconda. Tali immagini non possono essere interpretate letteralmente perché, lo ripetiamo, sono descrizioni metaforiche della distruzione totale del male e degli empi. Incidentalmente, gli stagni sono pieni d’acqua e non di fuoco.
– Il pensiero che il Dio della Bibbia, che è misericordia e giustizia, possa infliggere un castigo eterno per i peccati commessi nello spazio di una vita che per quanto lunga è comunque brevissima rispetto all’eternità, è un pensiero che non offre una spiegazione ragionevole. La dottrina del tormento eterno in uno stato di coscienza è decisamente incompatibile con la rivelazione biblica dell’amore e della giustizia divini. Questo punto, tuttavia, costituirà oggetto d’analisi quando verranno considerate le implicazioni morali del tormento eterno.
In conclusione, possiamo dire che forse era più facile accettare l’idea dell’inferno durante il medioevo, quando la maggior parte della gente viveva sotto regimi autocratici e dispotici che potevano torturare e sopprimere impunemente esseri umani. In simili condizioni sociali, i teologi, in tutta buona coscienza, potevano attribuire a Dio un carattere vendicativo e una crudeltà insaziabile, che oggi potrebbero essere considerati soltanto attribuibili ai demoni. Ai nostri giorni, le idee teologiche sono soggette a una censura etica e razionale che respinge qualsiasi perversione morale che possa essere stata attribuita, nel passato, a Dio. Il nostro senso di giustizia richiede che la condanna inflitta debba essere proporzionata al male commesso.
Questa importante verità viene però ignorata dall’idea dell’inferno secondo la tradizione che richiede una punizione eterna per i peccati commessi durante una vita breve.
Note:
[1]R.A. PETERSON, Hell on Trial: The Case for Eternal Punishment, Phillipsburgh, New Jersey, 1995, p. 88
[2]R.A. MOREY, Death and the Afterlife, Minneapolis, 1984, p.14. Lo stesso punto di vista viene espresso da Harry Buis, il quale scrive: «Questi passi tratti dalle epistole e dall’Apocalisse testimoniano che gli apostoli seguono il loro Maestro nell’insegnamento delle importanti alternative della vita. Essi parlano chiaramente del giudizio che porta alla vita o alla morte eterna, che non si realizza in una cessazione dell’esistenza, ma piuttosto un’esistenza nella quale i perduti sperimentano le terribili conseguenze del peccato. Insegnano che quest’esistenza è infinita » (Op. cit., p. 48).
[3]J.P.M. SWEET, Revelation, Philadelphia, 1979, p. 228.
[4]E. GUILLEBAUD, The Righteous Judge: A Study of the Biblical Doctrine of everlasting Punishment, Taunton, England, s.d., p. 24.
[5]J.F WALVOORD, «The Literal View», in Four Views on Hell, W. Crockett ed., Grand Rapids, 1992, p. 23.
[6]G.E. LADD, A Commentary on the Revelation of John, Grand Rapids, 1979, p. 270.
[7]R.A. PETERSON, Op.cit., p. 90.
[8]Citato da J.M. FORD, A Revelation, Introduction, Translation and Commentary, The Anchor Bible, New York, 1975, p. 393.
[9]M. MCNAMARA, I targum e il Nuovo Testamento, (Trad. R. Impera), Dehoniane, Bologna, 1978, pp. 147;174.
[10]Idem.
[11]lbidem, p. 123.
[12]Idem.
[13]R.H. MOUNCE, The Book of Revelation, Grand Rapids, 1977, p. 367.
[14]H. ALFORD, Apocalypse of John in The Greek Testament, Chicago, 1958, vol. 4, pp. 735,736.