Tratto dal libro “Il ritorno annunciato” di Giovanni Leonardi
«Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci son molte dimore. Se no ve l’avrei detto; io vo a prepararvi un luogo; e quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò, e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi» Giovanni 14:1-3
Un momento difficile
Certi momenti ci colgono totalmente impreparati. Anche se dovremmo aspettarceli è come se il nostro cuore si rifiutasse di prendere sul serio l’eventualità che accadano. Il desiderio d’altro ci fa chiudere gli occhi sull’inevitabile.
I discepoli di Gesù avevano abbandonato tutto per seguirlo. Avevano ascoltato le sue parole straordinarie e visto le sue opere potenti. Come le folle estasiate dopo la moltiplicazione dei pani, essi erano certi che Gesù fosse il Messia, il liberatore mandato da Dio (cfr. Giovanni 6:14). Non sospettavano che la liberazione sarebbe giunta attraverso vie apparentemente meno gloriose. Gesù, sapendo quello che sarebbe successo, aveva cercato di prepararli: «Da quell’ ora Gesù cominciò a dichiarare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed essere ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Matteo 16:21). Questo discorso non piacque affatto ai discepoli. Da lui si aspettavano la vittoria sulla sofferenza e sulla morte. Non lo avevano certo seguito solo per vederlo soffrire e morire.
Non so con certezza come essi immaginassero la vittoria cristiana. Le idee che circolavano tra il popolo e il pugnale che uno di loro portava sempre con sé sotto la tunica – e di cui fece buon uso al momento dell’arresto del suo Signore (cfr. Matteo 26:51,52) – lasciano pensare che si aspettassero un misto di azione miracolosa e violenta: la potenza sovrannaturale del Messia e la collaborazione dei volenterosi discepoli avrebbero annientato i malvagi e gli oppressori ridando a Israele la gloria da lungo tempo perduta e sognata. I discepoli, invece, avrebbero dovuto imparare che la libertà cristiana sarebbe stata conquistata con un sangue diverso da quello dei loro nemici. Gesù inizia a parlare loro della sua morte. Il discorso è sconvolgente: neppure il riferimento alla risurrezione ha senso per loro; nei loro cuori entra soltanto il discorso inaccettabile della morte.
La reazione dei discepoli è espressa da Pietro. È una reazione affettuosa e accorata. Egli non osa neppure parlare al suo Maestro davanti agli altri. Lo prende in disparte – non so se per umiltà o per non far fare una brutta figura a Gesù – e gli dice: «… Tolga ciò Iddio, Signore; questo non ti avverrà mai» (Matteo 16:22). C’è in queste parole la paura per il fallimento delle loro speranze, ma anche l’amore per un amico che non si vuole perdere.
Il momento della tragedia però giunge. La sera dell’ultima cena Gesù sa che sta per lasciare i suoi e desidera ancora una volta prepararli, riprendendo discorsi già fatti (cfr. Giovanni 13:21-38). Essi forse non capiscono pienamente cosa sarebbe successo. Comprendono però che Gesù li avrebbe lasciati e i loro cuori si riempiono di tristezza: «Il vostro cuore non sia turbato!». «… perché v’ho detto queste cose, la tristezza v’ha riempito il cuore» (Giovanni 16:6). La sofferenza del distacco può essere consolata pienamente soltanto dalla speranza del ricongiungimento ed è con questa visione che Gesù consola i suoi: «Non vi lascerò per sempre. Tornerò a prendervi e allora starete sempre con me. La nostra amicizia non si perderà. Un giorno vivremo insieme in una casa dalle molte stanze» segno della potenza di Dio, ma anche di una continua e intensa comunione.
Il momento del dolore diventa così una porta aperta sulla speranza, il distacco l’inizio dell’attesa.
La speranza dei primi cristiani
Non è rimasto molto di questa attesa. Ma essa costituiva il più grande motivo di gioia per i primi cristiani. L’apostolo Paolo la definiva «la beata speranza», la speranza che rende felici (cfr. Tito 2:13). I credenti si salutavano dicendosi «maranatà», «il Signore viene!» (cfr. 1 Corinzi 16:22). L’intera Bibbia si conclude con la scena di Cristo che rinnova la sua promessa: «Sì, io vengo presto.» E Giovanni, esprimendo il desiderio di tutta la chiesa, risponde:
“… Amen! Vieni, Signore Gesù!» (Apocalisse 22:20). Nell’intenzione dell’apostolo Paolo la celebrazione della “Cena del Signore», la commemorazione della morte del Signore, doveva essere vissuta sullo sfondo dell’attesa del ritorno di Cristo diventando così testimonianza e annuncio della fede in un futuro di vita: “Poiché ogni volta che voi mangiate questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore, finch’egli venga» (1 Corinzi 11:26). Se volessimo trascrivere tutti i testi delle Sacre Scritture che sono collegati a questa promessa occuperemmo probabilmente più della metà di questo libro.(1)
Importanza della promessa
L’insegnamento biblico sul ritorno di Gesù non è un elemento secondario della fede cristiana. Senza di esso, i discepoli, turbati dall’annuncio della morte del Maestro, sarebbero rimasti delusi. II loro cammino con Cristo li avrebbe portati solo sul Golgota. Se Gesù non ritornasse, il sacrificio di Cristo sarebbe stato il pegno affettuoso di un sogno mancato. II Vangelo si trasformerebbe nell’annuncio di una salvezza parziale, capace forse di trasformare il cuore dell’uomo, ma lasciando chiusa, davanti a lui, la porta della speranza in un mondo migliore.
“… e Cristo non è risuscitato» diceva l’apostolo Paolo «vana è la vostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati» (1 Corinzi 15:17). E poi continua: “Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini.
Ma ora Cristo è risuscitato dai morti, primizia di quelli che dormono. … Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati; ma ciascuno nel suo proprio ordine: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta» (vv. 19-23).
Per i primi cristiani la speranza era collegata all’attesa della parusia – cioè del ritorno – del Signore. Questo dà l’idea di come non si potesse parlare di speranza di salvezza al di fuori della speranza nel secondo avvento del Cristo.
La croce di Cristo rappresenta il culmine dell’amore di Dio. Ma senza la risurrezione essa sarebbe segno di un amore impotente, che commuove ma non salva. Senza il ritorno di Cristo, la croce diventa segno di un amore dimentico. Però così non è: com’è vero che Cristo è risorto dimostrando che l’amore di Dio è potente, così egli ritornerà mostrando che Dio ha la volontà di portare veramente a compimento il progetto del suo amore. Alcuni «… diranno: Dov’è la promessa della sua venuta?.. Ma voi, diletti, non dimenticate quest’unica cosa, che per il Signore, un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa… ma egli è paziente verso voi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti giungano a ravvedersi» (2 Pietro 3:4,8,9).
L’attesa, oggi, si è affievolita
Ancora oggi, pregando, recitiamo «venga il tuo regno». Ma si tratta di un regno dai confini incerti e sfumati. Quelli delle nostre città sono molto più definiti. Il patriarca Abramo viveva «… in tende perché aspettava la città… il cui architetto e costruttore è Dio» (Ebrei 11:9,10). Noi concepiamo invece le nostre città come il luogo delle nostre certezze e pensiamo alla città futura con l’atteggiamento di chi pensa alla tenda per le vacanze: il momento dello svago e del sogno, ma non della normalità della vita.
Nei casi migliori siamo spesso come le dieci vergini che in attesa dello sposo si sono addormentate (cfr. Matteo 25:5). Nei casi peggiori diventiamo come il servo malvagio il quale, pensando che il suo padrone tardi a tornare, comincia ad angariare i suoi colleghi (cfr. Matteo 24:45-51). In un mondo che non ha ancora conosciuto Cristo, o che avendolo conosciuto se n’è dimenticato, vi sono molti che ancora portano il suo nome ma che non lo aspettano più. Tuttavia qualcuno continua a ripetere l’antica preghiera di Giovanni: «Amen! Vieni Signore Gesù!»; una preghiera che accompagnerà sempre il cammino dei credenti fino al giorno in cui si ritroveranno faccia a faccia con il loro Signore. Le vergini sagge, come le stolte, possono anch’ esse stancarsi per la lunga attesa e addormentarsi, ma il loro cuore continua ad attendere. .
Quando il grido «Ecco lo sposo, uscitegli incontro!» risuonerà nella notte, esse saranno pronte ad accoglierlo e a partecipare alla sua gioia (cfr. Matteo 25:6-10).
NOTE:
(1) Molti saranno citati nel corso dei capitoli successivi. Ne riportiamo qui comunque alcuni associandoli ai testimoni neotestamentari della speranza cristiana.
♦ Gli angeli al momento dell’ascensione: «Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l’avete veduto andare in cielo» (Atti 1:11);
♦ l’apostolo Paolo: «… Il Signore stesso, con potente grido, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo…» (1 Tessalonicesi 4:16);
♦ l’apostolo Pietro: «Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni reputano che faccia; ma egli è paziente verso voi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti giungano a ravvedersi.
♦ Ma il giorno del Signore verrà come un ladro…» (2 Pietro 3:9,10);
♦ l’apostolo Giovanni: «… Figlioletti, dimorate in lui, affinché, quando egli apparirà, abbiamo confidanza e alla sua venuta non abbiamo da ritrarci da lui, coperti di vergogna» (1 Giovanni 2:28);
♦ Giacomo: «Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore…» (Giacomo 5:7);
♦ Giuda, probabilmente il fratello di Gesù, esorta ad aspettare «la misericordia del Signor nostro Gesù Cristo per avere la vita eterna» (Giuda 21).
♦ Anche i protagonisti dell’Antico Testamento hanno confidato nella realizzazione della promessa messianica di un nuovo mondo. Della loro fede troviamo traccia attraverso la testimonianza neotestamentaria o negli stessi scritti dell’A.T. Particolarmente bella ci sembra la testimonianza resa ad Abramo dall’epistola agli Ebrei: «Per fede soggiornò nella terra promessa, come in terra straniera, abitando in tende con Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha i veri fondamenti e il cui architetto e costruttore è Dio» (Ebrei 11:9,10).