03 – Non indurci in tentazione

Caro Teofilo,

fake_main_medium

ieri ho avuto modo di cogliere diversi aspetti della tua persona e mi dispiace molto per la tua storia..  tante sofferenze ed esperienze dure hanno attraversato il tempo della tua vita. Inoltre, scegliere, per tanti anni, di non confidarsi e di non raccontare il proprio dolore e le proprie emozioni non ha fatto che aggravare la propria situazione personale facendoti sentire ancora più solo al mondo. In questi casi, quando ci pare che nella vita i momenti in cui siamo caduti sono molto di più rispetto a quelli in cui abbiamo camminato, credo sia necessario concedersi la possibilità di fermarsi per capire cosa non ha funzionato, in che modo abbiamo preso strade e bivi sbagliati che ci hanno appesantito ulteriormente come in una caduta senza fine. Dare un significato, ricomporre il complesso puzzle della nostra vita e essere consapevoli di quanto accaduto perché non accada più permette di alleviare la nostra sofferenza, di salutarla e di trasformarla in esperienza. Spero che le mie brevi e ponderate parole relative al tuo rapporto con Dio ti abbiamo in qualche modo aiutato a capire che alcune delle sofferenze vissute sono provocate da una errata comprensione della parola di Dio. La tentazione, che per tanti anni ti ha angosciato, relativa a quel particolare aspetto della tua vita, non è peccato. Essa fa parte del quotidiano, è inevitabile e coinvolge tutti indistintamente: poveri e ricchi, religiosi e atei, semplici e celebrità, ecc.

La tentazione[1] rivela il male che esiste, allo stato potenziale, in fondo all’animo. Ciò significa che la tentazione è lo specchio delle nostre inconsistenze, delle nostre fragilità e pertanto un’attività indicativa non solo per conoscerci meglio, ma soprattutto per migliorare la qualità della nostra vita e il nostro rapporto con Dio. Di fatto l’incitamento a peccare non deve essere considerato come una modalità necessariamente negativa tesa ad allontanarci da Dio per dare spazio ai nostri desideri, tale da determinare uno stato di prostrazione e di sconfitta, ma una funzionalità della vita che ci permette da una parte di  confrontarci con noi stessi, con le nostre debolezze, dall’altra di valutarne le loro consistenze, quindi di superarle nella potenza del perdono, della grazia di Dio e con risolute decisioni.

L’apostolo Paolo evidenzia, nella lettera agli ebrei, che anche Gesù è stato «tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato» (Eb 4:15; Mt 4:1ss).

«Queste parole meritano di essere esaminate attentamente. Evidentemente non possono voler dire che Gesù ha sperimentato letteralmente ogni tentazione vissuta da tutti gli altri uomini. Vivendo alla sua epoca, egli non fu mai tentato di vedere cose sbagliate alla televisione o di guidare un’automobile all’impazzata. Queste parole debbono riferirsi, non alle circostanze delle tentazioni di Gesù, ma al loro significato. Le circostanze, o le modalità, delle tentazioni variano da persona a persona. Dipendono dalle opportunità e dalla personalità di ognuno. Ma quando si considera il loro significato di fondo, allora tutte le tentazioni sono simili, da quella di Adamo ed Eva nel giardino, proseguendo con quelle di Gesù nel deserto, fino a quelle con le quali ci confrontiamo noi oggi».[2]  Infatti, gli elementi impliciti in ogni tentazione sono la fiducia e la dipendenza da Dio, ciò significa che il fine ultimo della tentazione è quello di allontanarci da Dio, di infrangere il rapporto di fiducia e quindi svincolarci dalla sua sovranità.

Nel Nuovo Testamento il termine tentazione è quasi sempre usato per indicare gli attacchi di Satana contro i fedeli; ma evidenzia  anche che siamo tentati anche dai nostri inappropriati desideri o concupiscenze (Rm 6: 12; 1 Pt 2: 11). Ciò evidenzia che non dobbiamo sempre pensare che tutte le volte che siamo tentati abbiamo a che fare con il diavolo che è sempre pronto ad istigarci a peccare. Questo modo di  rapportarsi con la tentazione tende ad escludere le proprie responsabilità di fronte a delle scelte di vita che inevitabilmente ci immergono in situazioni sgradevoli e/o compromissorie, di cui facciamo fatica a liberarcene ed accettarne le conseguenze. Il Signore ama la sincerità di cuore (Sl 51:6). Davide tentato dal suo orgoglio e dalla sua accentuata passione di possedere la moglie di Uria, scelse in primo luogo di soffermarsi a lungo  sulle forme sinuose della bella Bathsheba; in secondo luogo scelse di intrattenersi intimamente ed infine, per evitare lo scandalo, decide di porre fine all’esistenza del marito (Sl 32). La tentazione dunque implica la responsabilità personale.

Indubbiamente Satana, inaspettatamente (1 Tim 6:9) può usare tutti i mezzi per indurci a peccare (1Cor 7:5; 1Tess 3:5),[3] ma il Signore non permetterà di essere tentati al di là delle nostre forze (1 Cor 10: 13). Ciò rivela che da una parte abbiamo delle risorse interiori, cui attingere, per non soccombere alla tentazione.[4] Non dobbiamo mai dimenticare che siamo stati creati ad immagine di Dio.[5] Dall’altra, il Signore mette a nostra disposizione la potenza della Spirito Santo affinché mediante la preghiera, le armi della fede e scelte di vita appropriate possiamo superarla (Mt 26:41; Ef 6:10-20).

«Non indurci in tentazione»

Spesso leggiamo la Parola di Dio o recitiamo il Padre nostro senza porre mente sul significato delle parole, come ad esempio l’espressione «non indurci in tentazione»,[6] che ha creato un bel po’ di problemi e ancora oggi è oggetto di attenta riflessione da parte di numerosi teologi.

Il teologo valdese Giovan­ni Miegge, alla complessità di que­sta espressione dedicava sei pagi­ne del suo commentario.[7] Vi troviamo la traduzione di Calvino: «Affinché non siamo indotti in tenta­zione, liberaci dal male» e quella dei primi secoli che erano una parafrasi inter­pretativa «sostanzial­men­te esatta» il cui scopo era quello di privare il testo di ciò «che può avere di scandaloso». Il Codice Bobbiense della Vetus Itala ha: «Non tollerare che siamo indotti in tentazione». Lo stesso senso si ritrova in Tertulliano e Cipriano, in Occidente, e in Dionigi d’Alessandria in Oriente. Marcione traduceva: «Non lasciare che sia­mo indotti in tenta­zione». Ilario spiegava: «Non ci abbandonare a una tentazione che non possiamo sopportare» con riferimento ai passi del Salmo 119:8; 1 Corinzi 10:13. «Esegesi ben intenzionata del testo, ma non il testo stesso». Le parole del Padre nostro nella loro letteralità sono in contrasto con Giacomo 1:13: «Dio non tenta nessu­no… ognuno è tentato dalla propria concupi­scenza…». «Evidentemente il “non indurci in tentazione” non può avere lo stesso signifi­cato che “non sedurci, non adescarci, non attirarci al male”: sarebbe una bestemmia».[8]

Secondo alcuni teologi, Matteo, con la sua espressione, ripropone quello che potrebbe sembrare l’atteggiamento di Dio nei confronti di Adamo nell’Eden, nei confronti di Abramo, dove il testo letteralmente dice: «Dio (lo) mise alla prova» (Gn 22:1) chiedendogli di sacrificare il figlio Isacco, o quello che Dio ha fatto per quarant’anni nel deserto per «umiliare e mettere alla prova» il suo po­po­lo (Deut 8:2), o dello stesso Gesù dopo il battesimo: «fu condotto dal­lo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4:1).[9] Ma quan­­do Matteo parla della tentazione (4:1 e seg. 16:1; 19:3; 22:18, 35; 26:41), si trat­ta sempre di una prova diabolica tesa ad indurre Gesù a cedere, a rinunciare alla missione. Inoltre, Dio non ha bisogno di “valutare quantitativamente e qualitativamente” la fedeltà di Abramo, del popolo d’Israele e tanto meno quella di Gesù. Dio è onnisciente, il suo è un sapere illimitato e pre-conoscitivo. Ciò non significa che egli determina le nostre azioni o che condizioni le nostre scelte di vita. La preconoscenza divina ha una funzione specifica nell’opera della salvezza, quella nel renderci maggiormente consapevoli delle conseguenze delle nostre scelte, affinché possiamo liberamente, optare per una scelta di vita ottimale e in armonia al fine ultimo della nostra esistenza: la vita eterna.

In altre parole “la prova” in sé fa parte della vita, sia come scelta di vita personale, sia come conseguente di interazioni sociali e  della caducità psico-fisica. Essa non ha nulla che fare con Dio se non nella misura in cui, abbandonandoci al suo amore, egli la trasforma in una benedizione spirituale, caratteriale e anche fisica, laddove egli lo ritiene opportuno. Scrive l’apostolo Paolo: «tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio» (Rm 8:28).

Nel suo grande amore Dio cerca di sviluppare in noi il carattere di Cristo. Per raggiungere questo prezioso obiettivo Egli si serve di tutti gli aspetti della vita anche di quelli sgradevoli: ostacoli, difficoltà, malattia, ecc., perché queste esperienze non rappresentino per noi soltanto sofferenze ma le maggiori benedizioni della nostra vita. «Infatti ogni tentazione respinta, ogni prova sopportata con coraggio infonde in noi nuova energia e ci fa progredire nella formazione del carattere. Chi riesce a resistere alla tentazione in virtù della potenza divina offre agli abitanti del cielo e della terra una straordinaria testimonianza della grazia di Dio. Non dobbiamo lasciarci spaventare dalle prove, per quanto dure possano essere; dobbiamo chiedere a Dio che ci aiuti a non lasciarci trascinare dal male al punto che sarà difficile resistere alle passioni che si annidano in noi. Pregando come Gesù ci ha insegnato, ci affidiamo a Dio perché ci guidi, chiedendogli di condurci verso strade sicure. Non possiamo pronunciare sinceramente questa preghiera se decidiamo di seguire la via che ci piace di più. Dobbiamo attendere che Dio ci accompagni e ci dica: «Questa è la via camminate per essa» (Is 30:21)».[10]

In breve, l’invocazione «non indurci in tentazione» ed altri testi simili,[11] non devono essere compresi come se  fosse Dio a tentarci o a metterci alla prova,  messa sulla strada del creden­te con uno scopo pedagogico, per vedere se avrebbe resistito allo sgambet­to divino. «Ma a esperienza avve­nuta, a fatto com­piu­to, a storia espres­sa, ciò che è successo è letto come una tentazio­ne o come una prova superata per leggervi la gloria di Dio espres­sa nella fedeltà del credente, del popolo e di Gesù. Così è stato di Giobbe, accusato di amare Dio per interesse, per convenienza, perché l’accusa che l’avversa­rio fece all’Eterno fu che la sua creazione non poteva aver prodot­to degli esseri che amano il Signore o si amino tra di loro per «niente – per nulla» (Giobbe 1:9), cioè solo per amore».[12]

Inoltre, «Non ci indurci in tentazione» e «liberaci dal male» vanno lette insieme, perché sono due facce della stessa medaglia. Con la seconda al positivo dà senso compiuto alla prima, che è in negativo. Separarle, equivarrebbe a non cogliere nella pienezza il senso della preghiera.

In effetti siamo dinanzi a una invocazione, o meglio ancora a un grido di aiuto, con il quale il discepolo chiede a Dio di tenerlo lontano da ogni forma di apostasia (cioè di abbandono della fede). Per comprendere a pieno il testo, guardiamo alla richiesta iniziale del Padre nostro: «venga il tuo Regno». Per il cristiano resta impellente l’attenzione verso il Regno di Dio, che certo è già iniziato con la venuta di Gesù, ma troverà piena realizzazione al ritorno di Cristo. Nell’attesa di questo compimento, siamo chiamati a vivere come discepoli del Signore, che rimangono fedeli al suo insegnamento.
Quando preghiamo con queste parole, stiamo dicendo che non siamo molto sicuri di noi e della nostra fede, sempre povera (Mt 5:3), per cui chiediamo al Signore di non essere tentati oltre le nostre forze e di liberarci da ogni male, primo fra tutti quello di smettere essere fedeli discepoli di Gesù nel mondo.

Non «indurci in tentazione» implica una decisione del cuore: dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore,.. Nessuno può servire a due padroni» (Mt 6: 21-24). A volte quello che noi reputiamo tentazione in realtà altro non è che la nostra concupiscenza, ma noi siamo così furbi da affibbiare al diavolo le nostre colpe, ecco perché Paolo dice: «nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Co 10:13).

Note:
[1] Ebr: nasah = tentazione, tentativo, prova; massah = tentativo; gr: peirazo = tentare, subire, cercare, mettere alla prova.
[2] RICHARD RICE, THE REIGN OF GOD, ANDREWS UNIVERSITY PRESS, BERRIEN SPRINGS, MICHIGAN – USA 1985  “Il regno di Dio – cap. VII: La dottrina di Cristo: Chi era Gesù (121).
[3]  Cfr. Ap 12:9,10,12‑17
[4] Proverbi 4:23
[5] L’immagine di Dio nell’uomo è sta deturpata, ma non cancellata dal peccato.
[6] “non ci esporre alla tentazione” (NR); “non ci indurre in tentazione” (Cei); “non esporci alla tentazione” (ND)
[7] MIEGGE Giovanni, Il Sermone sul Monte, ed. Claudiana, Torino 1970, pp. 214-220.
[8]  La parola greca eisenegkêis è composta da due parole: «eis» e «enegkêis» la prima significa “andare verso qualcosa” la seconda significa “caduta”  = “andare verso la caduta”. La bibbia Piemme suggerisce la seguente traduzione: «fa che non entriamo in tentazione ma liberaci dal maligno». Diodati, la Bibbia di Gerusalemme e della CEI, traducono in una forma lette­ral­mente esatta: «Non indurci…» come la Vulgata. Questa espressione fa pensare all’esercizio di una pressione di Dio sulla volontà dell’uomo per compiere una azio­ne con il senso di persua­de­re”, “influenzare”. Il Luzzi e la Nuova Diodati tradu­cendo: «Non ci esporre…» sono meno vigorosi, eleganti, attenuano la tradu­zione del Diodati e non si prestano alla scandalo.
La versione ecumenica, La Parola del Signore, riporta: «Fai che non cadiamo in tenta­zione». È una traduzione esplicativa tipo quella della versione Synodale fran­cese.
[9] Da rilevare che Luca che scrive per dei lettori gentili, un pubblico non pret­tamente giu­daico dice: «Fu condotto dallo Spirito nel deserto…, dove era tentato dal diavolo» 4:1. Stessa espressione nel vangelo di Marco: «Lo Spirito lo sospinse nel deserto; e nel deserto rima­se per quaranta giorni, tentato da Satana» 1:13.
[10] E. G. White, Con Gesù sul monte delle beatitudini “Il Padre nostro”, ed. AdV, Impruneta (Fi)
[11] Genesi 22:1; 42:15; Esodo 15:25; 16:4; Giudici 3:1; Salmo 66:10; Ebrei 11, ecc. Questi testi vanno letti tenendo conto che per  il pio Israelita, in contrapposizione al politeismo, riteneva che Dio fosse all’origine di tutto: del bene e del male, della disgrazia e del benessere, della vita e della morte. Tutto dipendeva da lui  quindi ogni cosa accadeva per sua volontà. Ad esempio sembra che Dio spinga Davide a fare il censimento, reputato poi colpa; invece egli solamente permette che lo spirito del male spinga Davide a fare il censimento (cfr. 2 Sam 24:1 con 1 Cron 21:1). Sembrerebbe che Dio assegni a Isaia la missione di pervertire il popolo (Is 6:9 ss), mentre in realtà soltanto prevede che il popolo prenderà occasione della predicazione del profeta per divenire sempre più malvagio.
[12] MIEGGE Giovanni, Il Sermone sul Monte, ed. Claudiana, Torino 1970, pp. 214-220.

Share Button