04 – Mostraci il Padre

La personalità di Dio

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«Gesù disse queste cose; poi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, l’ora è venuta; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, giacché gli hai dato autorità su ogni carne, perché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dati. Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che tu mi hai data da fare. Ora, o Padre, glorificami tu presso di te della gloria che avevo presso di te prima che il mondo esistesse. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che mi hai date, vengono da te; poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato» (Gv 17:1-8).

«Signore, mostraci il Padre, e ci basta» (Gv 14: 8). Anche noi, come Filippo, siamo lenti a capire Dio e il suo carattere. Quel discepolo che era stato per tre anni con Gesù, era ancora così lento di cuore e debole nella fede. Stupito per la lentezza della loro (degli apostoli) comprensione, Gesù chiese: «Da tanto tempo sono con voi e tu non m’hai conosciuto, Filippo?». È mai possibile che non siate riusciti a scorgere il Padre nelle opere che ho compiuto tramite lui? Non credete che io sia venuto per rendere testimonianza del Padre? «Chi ha veduto me, ha veduto il Padre; come mai dici tu: Mostraci il Padre?» (v. 9).  «Credetemi che io sono nel Padre e che il Padre è in me; se no, credete a motivo di quelle opere stesse» (v. 11).

Gesù s’è fatto uomo, uno come noi, con lo scopo di aiutarci a comprendere l’amore di Dio e di insegnarci a viverlo con affetto e senso di abbandono, ma nonostante gli anni di vita cristiana ed ecclesiale, di conoscenza teologica e dottrinale, siamo ancora increduli,  disorientati e incapaci di accettare dolcemente e amichevolmente l’amore di Dio. La nostra griglia interpretativa di Dio e della sua Parola risente molto del tipo di rapporto avuto con i nostri genitori, dal vissuto personale, dalla cultura e dal modo in cui ci si avvicina alla parola di Dio.

Indubbiamente, possiamo conoscere di Dio a partire dalla rivelazione che egli ha ritenuto opportuno offrirci di se stesso e limitatamente alla nostra caducità; ma è altrettanto vero che in Gesù Cristo possiamo acquisire quell’esperienza che ci aiuta a vivere nel suo amore con serenità e fiducia.

Ciò significa che quando ci avviciniamo a Dio, con l’aiuto delle sacre Scritture, dobbiamo farlo contemplando Gesù, riflettendo sul modo in cui nel suo quotidiano ha cercato di aiutarci a capire il modo in cui Dio, il Padre, desidera soggiornare in ciascuno noi, perché, come egli ha ben evidenziato, la vita eterna è questa: «che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17: 3).

Io credo che una equilibrata comprensione di Dio e del suo agire e/o una saggia lettura della sacre Scritture, soprattutto dell’Antico Testamento, non  può prescindere dalla mediazione di Cristo, la rivelazione ultima di Dio.

Dio ha un corpo?

Coloro che credono che Dio abbia un corpo si appellano spesso all’affermazione biblica che l’uomo fu creato «ad immagine di Dio» (Gn 1:27). Ciò sembrerebbe suggerire l’idea di una somiglianza fisica tra Dio e l’uomo. Se l’uomo assomiglia a Dio, ragionano, e se l’uomo ha un corpo, allora è logico supporre che anche Dio esista in una forma corporea.

Inoltre, molti testi biblici attribuiscono a Dio caratteristiche fisiche. Adamo ed Eva udirono il rumore di Dio che camminava nell’Eden (Gn 3:8). Mosè vide il dorso di Dio sul monte Sinai (Es 33:23). Isaia e Daniele videro Dio che sedeva su un trono (Is 6:1; Dn 7:9). Ci sono molti riferimenti agli occhi di Dio, alla sua mano e alla sua bocca, ed è spesso descritto nell’atto di parlare e a volte di piangere.[1]

La presentazione dell’uomo ad «immagine e somiglianza di Dio» con tutte le caratteristiche sopra elencate, assume un significato del tutto particolare in rapporto al modo in cui Dio si rivela. Questo fatto è la chiave per comprendere la rivelazione biblica, come manifestazione di Dio. Parlando di sé, per mezzo dei profeti e di Gesù Cristo (cfr. Eb 1: 1-2), Dio esprime un linguaggio antropico, utilizzando concetti e immagini umani. Se questo modo di esprimersi è caratterizzato da un certo antropomorfismo,[2] la ragione sta nel fatto che l’uomo è stato creato ad “immagine e somiglianza di Dio”, di conseguenza, anche Dio è in qualche modo “somigliante”[3] all’uomo e proprio sulla base di questa analogia, può essere conosciuto dagli uomini.

Allo stesso tempo, il linguaggio della Bibbia è sufficientemente accurato per mostrare i limiti di questa affinità. Infatti, la rivelazione biblica afferma che sebbene sia vera la “somiglianza” dell’ uomo con Dio è tuttavia più significativa la “non-somiglianza”, che differenzia tutta la creazione dal Creatore.[4] Egli è colui che abita in una luce «inaccessibile» e «immortale» (1Tm 6:16). Egli è il “diverso” per essenza ed è totalmente Altro (Is 55: 8-9; 46:5,9).

Sebbene Dio sia di natura soprannaturale e/o divina, in diversi luoghi della Scrittura (in particolare nell’Antico Testamento), troviamo dei brani che attribuiscono a Dio le qualità maschili e femminili. Ci riferiamo a diversi testi caratteristici del profeta Isaia: «Ma Sion ha detto: “Il SIGNORE mi ha abbandonata, il Signore mi ha dimenticata”. Una donna può forse dimenticare il bimbo che allatta, smettere di avere pietà del frutto delle sue viscere?  Anche se le madri dimenticassero, non io dimenticherò te» (Is 49:14-15). E altrove: «Come un uomo consolato da sua madre così io consolerò voi, e sarete consolati in Gerusalemme» (Is 66, 13). Anche nei Salmi Dio è paragonato ad una madre premurosa: «In verità l’anima mia è calma e tranquilla. Come un bimbo divezzato sul seno di sua madre, così è tranquilla in me l’anima mia» (Sl 131:2).

In altri passi della Scrittura l’amore di Dio per il suo popolo, è equiparato a quello di una madre. Come una madre Dio ha dato i natali all’umanità e in particolare al suo popolo eletto, il quale è stato partorito nel dolore, nutrito dal seno materno e sostenuto fin alle canizie (cfr. Is 42:14; 46: 3-4). In altri ancora la sua dolcezza e/o tenerezza è presentata sia come amore “maschile” del marito e del padre (cfr. Os 11: 1-4, Ger 3: 4-19) sia  come amore femminile della madre (Sl 27:10; Is 66:13).

Questa caratteristica del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica anche indirettamente che la sua natura intima divina non è ne maschio né femmina, ma spirituale, come Gesù ha ben evidenziato: «Dio è Spirito!» (Gv 4: 24). Ciò significa che non possiede nessuna proprietà tipica del corpo femminile o maschile.

In altre parole, Dio non soffre le limitazioni del corpo, ed essendo Spirito, non è limitato e condizionato come noi. L’antropomorfismo biblico, cioè il fatto che nella Scrittura si parli di Dio con concetti e termini umani, serve soltanto a renderlo più comprensibile e vicino all’uomo (Is 37:17; 65:2). Va ricordato senza contraddizioni, che Dio (Cristo) nella sua incarnazione ha assunto volontariamente i limiti della corporalità allo scopo di avvicinare l’uomo a Dio.

Pertanto, è nel senso antropomorfo che l’Antico Testamento parla di Dio come Padre e che Gesù Cristo, uomo come noi,  si rivolge a Dio chiamandolo “Abbà, Padre” (Mc 14: 36).

Questo risulta ancora più palese quando si parla della persona o personalità dello Spirito Santo (Dio). Alcuni ambienti hanno rielaborato la teologia della TRINITA’, riducendo la persona dello Spirito Santo, a una forza dinamica impersonale. Per fare questo è stato necessario mutilare la Bibbia, nelle parti in cui ci parla in modo chiaro sulla persona dello Spirito che è chiamato Paracletos, soccorritore, consolatore (Gv 14:16,17). Lui, agisce realmente come una persona, infatti parla, insegna e testimonia (Gv 14:26; 15:26; 16:13; Eb 10:15). E’ intelligente ed ha volontà propria (1 Cor 2:11; 12:11), convince, ama e guida (Gv 16:8; Ro. 8:14; 15:30).

Conseguentemente, gli attributi Padre, Figlio e Spirito Santo, sono consequenziali all’incarnazione e non ci dicono nulla sulla natura divina della Trinità. Sono espressioni antropomorfiche che da una parte specificano il ruolo della divinità nell’opera della riconciliazione, dall’altra ci aiutano a capire il tipo di relazione che Dio desidera avere con ciascuno dei suoi figli. Tali attributi ricalcano l’esperienza umana, non quella divina.

Un ultimo aspetto. Il fatto che Dio si rivela come se fosse un uomo, non dovrebbe indurci in ogni caso a pensare che siamo invitati a promuovere qualsiasi immagine su Dio in termini  di adorazione. Utilizzando antropomorfismi la religione della Scrittura è l’unica di tutti i culti dell’antichità a proibire nella forma più radicale qualsiasi rappresentazione di Dio, sia mediante statue, riproduzioni o qualche raffronto tratto dalla natura, dagli animali e anche da oggetti (Es 20: 2-5; Deut 4:14-19; ecc.). Ciò significa che quando la Scrittura parla di Dio usando un linguaggio figurato, lo fa unicamente affinché l’amore di Dio, la sua grazia siano accessibile a qualsiasi persona.

Con parole diverse, «non ci sarebbe rivelazione senza antropomorfismi, nel senso che una rivelazione che non si facesse carico di connettersi col mondo creato non sarebbe tale. Dio sceglie di comunicare in queste forme pur non potendo essere considerato un essere ad immagine dell’uomo. Infatti, Egli non è la proiezione delle qualità umane, ma sceglie di rivelarsi ricorrendo a forme che lo rappresentano in termini umani. Le descrizioni antropomorfiche di Dio vanno lette nell’ottica dell’analogia e dell’accomodamento della rivelazione divina. Dio si rivela in modo tale da comunicare la sua persona e la sua volontà in modo comprensibile all’uomo; per farlo, accondiscende a livello della creatura e si presenta con tratti umani».[5]

Com’è il cuore di Dio?

La Scrittura ricorre alla parola «amore» per descrivere l’essenza di Dio. L’espressione «Dio è amore» (1Gv 4:8) è una delle più belle descrizioni della natura di Dio. L’apostolo fa questa dichiarazione nel contesto della salvezza in Cristo, quindi, rivela l’essenza stessa di Dio: egli è amore.

L’amore di Dio è libero in quanto nessuno può costringerlo ad amare. Il suo amore non è fondato su un bisogno dell’uomo, né su un desiderio o su un’attrazione che l’uomo possa suscitare in lui. Il fatto che Dio ami l’umanità abbrutita dal peccato dimostra che il suo amore è incondizionato. L’apostolo Paolo, infatti, scrive: «Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5:8).

Dio non ha amore, ma è amore. Questa caratteristica essenziale del suo carattere dimostra che ogni sua azione è motivata dall’amore. L’elezione del suo popolo è fondata sul suo amore (Dt 7:7,8); così anche la sua redenzione (Is 43:4; 63:9). Inoltre, Dio non ama solo il suo popolo (Dt 33:3); ama anche lo straniero (Dt 10:18).

La rivelazione dell’amore di Dio raggiunge la sublime espressione nell’incarnazione: il ministero, la morte e la risurrezione di Gesù. Il suo amore per i trasgressori non è motivato dalle difficoltà dovute alla loro condizione di peccatori, ma solamente perché egli ama ed è questa passione potente che lo spinge ad amare gli uomini malgrado i loro peccati.

Nel cercare di aiutarci a capire il suo amore e il coinvolgimento emotivo di Dio nelle dinamiche umane, la  sacra Scrittura, soprattutto l’antico Testamento, si esprime con gli antropopatismi.[6] Asserisce dunque che Dio «gioisce» (Sof 3:17), ha «disgusto» (Sl 95:10)[7], è «geloso» (Es 20:5)[8], «si pente» (Gn 6:6-7)[9], si «vendica» (1 Sam 24:13)[10], «odia o detesta» (Sl 5:5)[11] e manifesta la sua «ira» o la sua «collera» ( Es 34:6; Gb 9:13) [12], ecc.

Onestamente, queste espressioni designano gli stati d’animo dell’uomo, della nostra realtà nel suo quotidiano, e sono attribuiti a Dio per esprimere i suoi sentimenti e rendercelo accessibile, comprensibile, vicino. È evidente che nessuna di queste parole riflette esattamente la natura di Dio, ma soltanto un’idea di ciò che lo scrittore sacro voleva presentare. Ciò ci induce a evidenziare quanto sia indispensabile evitare di comprenderle nel senso letterale. Di fatto queste emozioni così forti come l’ira, l’odio, la gelosia, ecc. sono in netto contrasto con l’amore di Dio che si esprime in termini di misericordia, accoglienza, perdono,  comprensione, ecc. Inoltre, bisogna prendere atto che per l’orientale nel suo linguaggio popolare e primitivo, talvolta attribuisce a Dio un effetto diretto di tutto quello che succede nella vita. In altre parole gli agiografi ritenevano che Dio fosse all’origine di tutto: del bene e del male, della disgrazia e del benessere, della vita e della morte. Tutto dipendeva da lui  quindi ogni cosa accadeva per sua volontà.[13]

Ad esempio sembra che Dio spinga Davide a fare il censimento, reputato poi colpa; invece egli solamente permette che lo spirito del male spinga Davide a fare il censimento (cfr. 2 Sam 24:1 con 1 Cron 21:1). Sembrerebbe che Dio assegni a Isaia la missione di pervertire il popolo (Is 6:9 ss), mentre in realtà soltanto prevede che il popolo prenderà occasione della predicazione del profeta per divenire sempre più malvagio.[14]

Come intendere queste espressioni emotive cosi forti e divergenti? Qual è il loro significato?

Il pentimento di Dio

Si è da poco consumato il rituale idolatrico del vitello d’oro. Il Signore confida a Mosè, in dialogo con lui sulla vetta del Sinai, il suo sdegno: «Lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga!» (Esodo 32: 10). Mosè perora la causa dell’assoluzione attraverso una sottile e appassionata argomentazione basata sulla stessa promessa divina di un futuro per Israele:  «Ricordati di Abraamo, d’Isacco e d’Israele, tuoi servi, ai quali giurasti per te stesso, dicendo loro: “Io moltiplicherò la vostra discendenza come le stelle del cielo; darò alla vostra discendenza tutto questo paese di cui vi ho parlato ed essa lo possederà per sempre» (v. 14).

A questo punto — conclude il racconto di Esodo 32 — «il Signore si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo» (v. 14). «Espressione, questa, piuttosto sorprendente e teologicamente “scorretta”, come quella che si legge agli esordi del racconto del diluvio allorché si dichiara a tutte lettere che «Dio si pentì di aver fatto l’uomo» (Genesi 6:6).[15] Eppure, dopo altre pagine dello stesso Pentateuco, si legge che «Dio non è un uomo da potersi smentire, non è un figlio dell’uomo da potersi pentire» (Nm 23:19).[16] E, allora, come si spiega questo fenomeno che attribuisce a Dio un profilo (talora anche pe­santemente) umano e che è definito dagli studiosi col termine “antropomorfismo”?».[17]

Il pentimento di Dio, diversamente dal pentimento umano che è caratterizzato dall’umiltà nel riconoscere la propria fragilità e dal desiderio di migliorarsi, esprime innanzitutto il dolore di Dio nell’osservare che gli uomini nonostante l’elezione possono rigettarlo (1 Sam 15:11-13) e quindi frustrare il suo progetto,[18] la sua benevolenza, il suo essere Padre e Creatore. In secondo luogo evidenzia la propria sofferenza per il male che l’uomo fa a se stesso allontanandosi da lui, ed infine il suo desiderio di accordare la sua grazia nonostante  la malvagità umana perché il suo amore è eterno (Ger 31:3).

«Una lettura letterale del testo di Esodo 32:7-14 fa pensare che Dio si sia penti­to di distruggere il suo popolo (v. 10), perché Mosè lo ha supplicato di non realizzare ciò che nella sua ira desiderava compiere. Se il testo biblico riportasse la realtà dei fatti dovrem­mo pensare che non solo l’Eterno sarebbe come un uomo, ma che un uomo come Mosè, lui pure di passione e d’ira, sia però migliore di Dio. Le parole di Mosè rivolte a Dio rievocano la sua grazia espressa nella liberazione dal­l’Egitto, l’ammirazione che ha suscitato negli egiziani stessi, le promes­se e il giura­mento fatto ai padri (Abra­mo, Isacco) a realizzazione della  promes­sa fatta nell’Eden (Gn 3:15), malgra­do la fragilità e le contraddi­zioni del popolo che sarebbe sorto da loro. Come Abramo e Isacco sono stati grandi patriarchi grazie alla misericordia di Dio andando oltre alle loro miserie morali, così il popo­lo uscito dall’Egitto sarà testimone della grazia di Dio perché oggetto della sua misericordia, pazienza, volontà di bene a prescindere dalle sue contrad­dizione e cadute. L’atteggiamento di Dio nei confronti di Israele testimonia del suo com­portamento nei confronti dell’umanità. Il pentimento di Dio più che esprimere un proprio cambiamento di sentimenti manifesta la sua volontà di operare per il bene dell’uomo mal­gra­do la realtà».[19]

L’Ira di Dio.[20]

L’Antico Testamento parla continuamente dell’ira di Dio che indubbiamente è impossibile conciliare con espressioni che rivelano il suo amore che è eterno (Ger 31:3) o con la sua misericordia e senso di accoglienza.  Le immagini con cui viene descritto il Dio che interviene con durezza in un momento d’ira, che è espressamente un’emozione umana negativa, dimostrano chiaramente quanto sia intenso il suo sentimento di giustizia e santità nei confronti del male.

Di fatto, l’ira di Dio non è uno sfogo incontrollato delle sue pas­sioni, ma l’espressione forte e determinato della sua opposizione al male. Indica la personalità viva di Dio, la sua indignazione nei confronti dell’illegalità, della sopraffazione, ecc. Il Signore non è indifferente nei confronti dell’ingiu­sti­zia, ma reagisce con dolore. “L’ira dell’agnello” (Ap 6:16) indica l’indi­gna­zione, la sofferenza di Gesù nei confronti del male.

Scrive F. Godet, «rifiu­tando a Dio la facoltà di indignarsi, gli si rifiu­ta di fatto quella di amare, di amare seriamente; si sostituisce al Dio vivente[21] una idea morta, un muto idolo dell’intelligenza».[22]

La Bibbia utilizza termini come vendetta, odio, ira, collera, attribuen­doli a Dio per esprimere idee come:

– Dio non ha nulla a che vedere con il male e con il peccato.[23]

– L’ira di Dio è il suo antagonismo fermo, inesorabile, costante e sen­za com­promessi con il male in tutte le sue forme e manife­stazioni. L’ira di Dio è agli antipodi della nostra che è conseguenza della nostro orgoglio offeso. Questo sentimento non è mai nel Signore. In noi l’ira è anche la nostra reazione al male commesso. Questa espressione esprime l’opposi­zione di Dio a ciò che è male. «L’ira di Dio nei profeti è la certezza del trionfo della giustizia; Dio è amore, ma l’amore non è mai complicità con il male o indifferenza nei suoi confronti; la giustizia è un aspetto del suo amore».[24] In questa prospettiva il profeta Geremia diceva: «L’ira (leggi giustizia) del Signore non si placherà, finché non abbia eseguito, compiu­to i disegni del suo cuore; negli ultimi giorni lo capirete appieno» (Ger 23:20). Quindi il concetto d’ira esprime che la vendetta non compete all’uomo. Alla fine della storia il male cesserà in modo totale e definitivo.

Scrive il cardinale C. M. Martini: «Noi rifiutiamo istinti­va­mente il pen­siero che Dio si adiri e punisca le sue creature, che mandi la gente in esi­lio, che sia l’autore della fame e dello stermi­nio. Ci sembra che l’attribuire a Dio il castigo sia tipico di un tempo passato, quando Dio era conside­­rato l’origine di tutto, del bene e del male. Oggi, credo con buoni motivi, prefe­riamo non parlare di un’ira esterna di Dio, quasi a dire che dal di fuori lui interviene per punire, ma piuttosto di un’ira immanente, nel senso che il popolo, abbandonando l’alleanza, perda il senso dei valori, decade, e il casti­go è dunque immanente alla perdita dell’alleanza. In al­tre parole, è l’uma­nità che si prepara con le sue mani un castigo. Se l’al­leanza significa felicità, la perdita dell’al­leanza equi­va­le a infelicità, così come nel N.T. Gesù contrappone le beatitudi­ni ai “guai” (Luca 6:20-26), sottolineando una felicità colle­gata con l’alleanza e un’infelicità conse­guen­te all’abban­dono di essa. Tale interpretazione mi pare legittima, dal mo­mento che il Signore ha posto il bene nel popolo e di ciascuno di noi nell’osservanza della sua alleanza, nel “rimanere” nel suo amore, nel cer­care la sua volon­tà; distaccandoci da questa volontà, precipitiamo a poco a poco nell’infe­licità, nella noia, nel disgusto della vita, nell’inca­pacità a orientarci».[25]

La gelosia di Dio.[26]

Dio è geloso perché Dio vuole che il suo rapporto con Israele, che sovente viene presentato con il linguaggio coniugale, sia improntato alla fedeltà e all’esclusività, come per dire che il Signore non vuole l’idolatria. Dio gioisce per il bene delle sue creature, ed è geloso di loro non perché qualcosa o qualcuno gli possa­no sottrarre la soddisfazione del posses­so sulle creature. Con questa espressione emotiva dell’uomo lo scrittore sacro esprime la sofferenza di Dio di fronte alle sue creature che credono di avere amore, bene, gioia da altre sorgenti che non siano collega­te con lui e non riconducano a lui. Fuori dell’Eterno l’uomo trova cisterne scre­po­late (Geremia 2:13), vuote di amore, perché lui è amore. La Bible Annotée nello spiegare la gelosia di Dio espressa nel secon­do comanda­mento scrive: «La gelosia divina è un attributo del suo (di Dio) amore. Se Dio non vuole che si dia a un altro l’adorazione che appartiene solo a lui, è perché questo atto sarebbe l’inizio della degradazione e della corruzione di colui che inizia una tale pra­tica».[27]

Concludendo, questo breve excursus riteniamo che anche se nessun attributo umano o paternità maschile o femminile possono essere attribuiti a Dio, nella persona del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, Egli comunque si presenta all’uomo come modello assoluto di Padre[28], dove  ogni famiglia s’ispira della quale Dio ne è l’origine. In questo senso antropomorfico, si dovrebbe leggere il testo di Efesini: «Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome, affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore» (Ef 3: 14 16).

Ogni famiglia, ogni essere umano e volendo ogni essere vivente si ispira a questo modello divino e in questo senso possiamo cogliere, nonostante i limiti dell’analogia, il nostro senso di appartenenza a Dio.

Note:

[1] Nel presentare Dio, gli agiografi e i profeti dichiarano che Egli «parla» (Gn 1:3), «ride» (Sl 2:4), ha «occhi» (Am 9:4) per vedere (Gn 6:12); ha «braccia»(Ger 27:5)[1] per esprimere la sua forza soccorritrice; ha «mani» (Sl 139:4), ha «dita» (Es 33:17-23; 31:18); ha «orecchie» (Sl 17:6) per ascoltare (Es 16:12) e sentire (1 Sm 26:19) ed ha «piedi» (Nh 1:3; Is 634:3) per i quali la terra è lo sgabello (Is 66: 1). La spiegazione dei passi biblici in cui sono presenti questi elementi di rappresentazione antropomorfa di Dio, per i Padri della Chiesa, come per una parte dell’esegesi rabbinica, è che si tratti di metafore rese necessarie dall’incapacità dell’uomo di cogliere l’essenza del divino se non per analogia con l’esperienza umana. In particolare, a proposito dell’antropomorfismo biblico, Clemente Alessandrino scrive: “anche se questo si trova scritto di lui, non ci si deve rappresentare affatto il Padre dell’universo come avente figura, come se potesse spostarsi, stare in piedi o seduto o abitare in un luogo, come se avesse una mano destra e una mano sinistra. La causa prima non si trova in un luogo, è al di sopra del luogo, del tempo, del nome e dell’intelligenza. Dio non può essere insegnato e neanche detto, ma egli (secondo la Bibbia) può essere conosciuto dall’effetto dell’energia che viene da lui” (Stromata 5,11,71-4). Secoli più tardi, Tommaso d’Aquino precisa che “le immagini grazie alle quali la fede intuisce qualcosa del mistero di Dio non costituiscono l’oggetto della fede, ma ciò grazie al quale la fede tende verso il suo oggetto” (De veritate q.18, a. 8 ad 11 m).
[2] Il termine antropomorfismo deriva da due parole greche, anthrōpos, “umano” e morphē, “forma”, che nel contesto teologico, religioso,  significa attribuzione alla divinità di qualità umane,  fisiche,  intellettuali e morali. In generale, l’antropomorfismo  serve  per illustrare, o per facilitare la nostra comprensione delle realtà celesti,  dell’amore di Dio per l’umanità, che diversamente risulterebbero incomprensibili. Concezioni antropologiche della divinità sono testimoniate fin dalla remota antichità da reperti archeologici, a cui si affiancano successivamente opere letterarie, come i poemi di Omero e di Esiodo. Contro la tendenza dell’antropomorfismo insorge fin dai suoi inizi la filosofia: con Senofane, poi con i filosofi posteriori (ad eccezione degli epicurei) e, in particolar modo, con il cristianesimo. In epoca moderna, il problema dell’antropomorfismo nella religione è stato affrontato con decisione e rigore da Spinoza, dagli illuministi e, nell’Ottocento, da Feuerbach. In letteratura, ci sono centinaia di esempi di antropomorfismo. I libri per bambini sono spesso esempi di antropomorfismo. La serie televisiva e la serie di libri di Arthur è un esempio. Scrittori per adulti hanno utilizzato l’antropomorfismo con grande efficacia. Dizionario Treccani online.
[3] Il carattere unico della razza umana risiede nel fatto che noi siamo stati creati ad immagine di Dio (Gn 1:27). La creazione di Adamo ed Eva non si è realizzata nello stesso modo in cui è avvenuta quella del resto del mondo conosciuto. Il Signore ha parlato ed il mondo naturale è venuto all’esistenza. La parola precede l’esistenza. Nel caso di Adamo ed Eva, invece, non viene formulata alcuna parola: la voce di Dio viene trasmessa loro direttamente solo dopo che essi furono creati (Gn 1: 20-30; 2:16). Essi sono stati scelti da Dio come destinatari della Sua parola. In altri termini, gli esseri umani sono delle creature con le quali il Signore può entrare in relazione per rivolgersi ad altre persone. Nel mondo creato gli uomini possono avere e coltivare delle relazioni personali con Dio. Questo aspetto della nostra natura ci rende collaboratori di Dio nella gestione del mondo creato. Per secoli i teologi hanno discusso sul significato dell’immagine di Dio nell’uomo. Sono state proposte differenti soluzioni, ma oggi, generalmente, tutti sono d’accordo sull’idea che “l’immagine di Dio non è qualcosa che noi abbiamo, ma qualche cosa che noi siamo”. L’immagine di Dio in noi non è localizzata in un elemento particolare della nostra persona, ma nella totalità del nostro essere. Nella creazione, l’immagine di Dio si rifletteva su tutti gli aspetti di Adamo e di Eva: spirituale, intellettuale, sociale e gestionale.
[4] La nozione del Dio creatore implica inevitabilmente la sua trascendenza rispetto all’universo: Dio, infatti, non fa parte della creazione. Dal resoconto che troviamo in Genesi, Dio crea per mezzo della sua parola. Ciò mostra che egli è un essere trascendente che mette in opera la sua attività creatrice per mezzo della parola ponendosi al di fuori della creazione. È un nonsenso cercare Dio nel mondo creato, poiché la materia creata non ha in sé una particella divina in quanto Dio ha creato non a partire dalla sua essenza, ma dalla sua parola! Ciò significa che la creazione è preceduta dalla non-parola, da «un silenzio». Tale insegnamento è in contrasto con la tesi panteista. Dio, quindi, non può essere circoscritto da ciò che Egli stesso ha creato (1Re 8:27).
[5] Dizionario di Teologia evangelica, ed. Eun, Antropomorfismo, 2007
[6] antropopatìa s. f. [comp. di antropo- e -patia]. – Tendenza ad attribuire alla divinità passioni, ma anche ogni altra caratteristica psichica, proprie dell’uomo; è un aspetto, quindi, dell’antropomorfismo (denominato anche antropomorfismo psichico). Dal greco: antropos–uomo e patos–sentimento), è un’espressione per mezzo della quale si esprime con i sentimenti umani  quelli di Dio, come pentirsi, adirarsi, dimenticarsi (Gen 6:6; Es 32.10ss).
[7] Cfr. Lamentazioni 2:7
[8] Cfr. Esodo 34:14; Deuteronomio 4:24; 5:9; 6:15; Giosuè 24:19; Nahum 1:2; 2 Corin­zi 11:2.
[9] Cfr. Esodo 32:14; Giudici 2:18; 1 Samuele 15:11; Salmo 106:45; 110:4; Gere­­mia18:8;  26:13; 42:10; Gioele 2:14; Giona 4:2; Ebrei 7:21.
[10] Cfr. Geremia 15:15; 46:10;Apocalisse 6:10; 19:2.
[11] Cfr. Salmo 11:5; 26:5; 45:7; Proverbi 6:16; Isaia 61:8; Geremia 44:4; Amos 5:21; Malachia 2:16.
[12] Cfr. Numeri 14:18; 1 Cronache 27:24; Nehemia 9:17; Giobbe 21:24; Salmo 27:9; 77:9; 78:58; 86:15; 103:8; 106:32; 145:8; Zaccaria 8:14; Romani 5:9; 12:9; 1Tessalonicesi 1:10; Apocalisse 6:16.
[13] Gli scrittori dell’A.T., tenendo conto del contesto religioso politeista in cui hanno vissuto e delle esigenze del Dio unico e sovrano, avvertono una profonda preoccupazione monoteista, tale da indurli ad attribuire a Dio ogni evento della vita.
[14] Il bene e il male, la benedizione e la maledizione sono mandate dal­l’Eterno. «Se osserverete i miei comandamenti… io vi darò…» Levitico 26: 3,4; «Se ubbidisci… il tuo Dio ti metterà al di sopra di tutte le nazioni» Deuteronomio 28:1. Per contro: «Se non mettete in pratica tutti questi coman­­damenti… ecco quel che vi farò…» Leviti­co 26:14,16; «Se non ubbi­disci… il Signore manderà contro di te la maledizione…» Deuteronomio 28:15,20. Il profeta Geremia dirà da parte del Signore: «Ma essi non l’han­no ascoltato, …perciò io (l’Eter­no) ho fatto venire su di loro tutto quello che avevo detto… » Geremia 11.8; cfr. Isaia 24:5-20; 26:3-6. Un altro te­sto dice: «Per­ché gridi a causa della tua ferita? Il tuo dolore è insanabile. Io ti ho fatto queste cose per la tua grande iniquità, perché i tuoi peccati sono andati aumentando» Geremia 30:15. Ma in altre occasioni, lo stesso profeta Geremia aveva precisato meglio quali erano le cause del male: «La tua malvagità è quella che ti castiga; le tue infedeltà sono la tua punizione. Sap­pi dunque e vedi che cattiva e amara cosa è abban­donare il Signore, tuo Dio, e non avere di me nessun timore. Le vostre iniquità hanno sconvolto queste cose; i vostri peccati vi hanno privati del benessere. Ascolta, terra! Ecco, io faccio venire su questo popolo una calamità, frutto dei loro pen­sieri; perché non sono stati attenti alle mie parole; hanno rigettato la mia legge. È proprio me che offendono, dice il Signore, non offendono essi loro stessi, a loro vergogna?» Geremia 2:19; 5:25; 6:19; 7:19. Anche Mosè ave­va già scritto: «Ma se non fate così, voi avrete peccato contro il Signore; e sappiate che il vostro peccato vi ritroverà» Numeri 32:23.
[15] Altre espressioni tipo «E il SIGNORE disse: Io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato: dall’uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti»  (Gn 6:7). Gioele nel chiamare il popolo al penti­men­to usa le stesse parole di Mosè (Es 34:6), di Davide (Sl 86:15), di Giona (4:2): «Tornate al Signore, vostro Dio, perché egli è mise­ricor­dioso e pietoso, lento all’ira e pieno di bontà» e aggiunge: «e si pente del male che manda» (Giol 2:13).
[16] Cfr. 1 Sam 15:29; Mal 3:6
[17] Vita Pastorale, mensile ESP, Gennaio 2007 p. 56, a cura di Mons. Gianfranco Ravasi.
[18] In occasione del Diluvio Dio si pente (Gen 6:6) nel senso che egli è rammaricato per il  fatto che l’uomo è stato capace di pervertire il progetto originario di Dio, venendo meno allo scopo per cui lo aveva creato.
[19] A. Pellegrini, “Il volto di Dio” libro non pubblicato,disponibile online.
[20] Questa parte è in gran parte del Past. A. Pellegrini, op. cit.
[21]  «“Un Dio vivente”, in opposizione agli idoli morti. Dio agisce e, come una volta ha agito, agirà ancora: egli viene, non resta lontano, ma viene incontro al suo popolo. Nel linguaggio del N.T. questo è il buon annuncio, l’evangelo» GIRARDET Giorgio, La Bibbia perché – il linguaggio e le idee guida, ed. Claudia­na, Torino 1993, p. 109.
[22] GODET Fréderic, La Sainteté de l’Ancien testament, S. Delachaux, Neuchâtel 1869, p. p 16.
[23] «La sua collera non è altro che il suo rifiuto dovuto al male. Non può soppor­ta­re il peccato. “I suoi occhi sono troppo puri per sopportare la vista del male” Habacuc 1:13… Il rifiuto del peccato provoca una reazione che gli uomini chiama­no collera. Ma, in Dio, questa collera è una parte integrante dell’amore… è la sua reazione a ciò che attenta all’armonia della creazione, e di conseguenza, alla vera felicità dell’uomo. La sua collera è la forte riprovazione del male». STÈVENY George, La non ­violence de Dieu et des hommes, éd. Vie et Santé, Damma­rie les Lys 2001, pp. 31,30,33. Comprendiamo il pensiero del profeta non le sue parole. Dio vede il male di questo mondo e non è indifferente, non chiude gli occhi, soffre. Questa sofferenza di Dio espressa con la parola “collera” indica la sua determinata opposizione.
[24] RIZZO Rolando, Predicare Cristo, l’arte di predicare il messaggio della rivelazione, ed. ADV, Falciani 2003, p. 39.
Il teologo Paolo Ricca scrive: «L’“ira di Dio” è un modo di dire quasi totalmente scomparso dal linguaggio religioso moderno (era invece frequente nel Medio evo: dies irae, dies illa…) ed è totalmente estraneo alla nostra sensibilità. È ovviamente un antropomorfismo, che però rivela un aspetto fondamentale di Dio, cioè il suo rifiuto intransigente del peccato, il suo “no” radicale, categorico, assoluto al male. L’“ira di Dio esprime la sua resistenza attiva, e non solo passiva, a tutto ciò che in questo mondo da lui creato contraddice la sua legge e la sua volontà. L’“ira” di Dio è un modo per descrivere la sua opposizione frontale al male che dilaga nel mondo (ma può facilmente trovare spazi anche nella nostra vita), seminandovi sofferenza e morte. L’“ira” di Dio, potremmo dire, è il risvolto critico della sua santità. E quando il Salmista dice: “tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira”, afferma che se nella nostra vita Dio trova troppe cose che non approva, egli, col suo giudizio, in qualche modo l’azzera. I nostri giorni, in tal caso, «svaniscono», si perdono nel nulla perché non contengono nulla che abbia valore e dia loro valore. L’“ira” di Dio è il suo “no” su tutto ciò che di sbagliato c’è nella nostra vita e che, per così dire, la fa “svanire”, cioè morire prima del tempo». RICCA Paolo, Davanti a Dio, Claudian, Torino 2008, p. 85.
[25] MARTINI Carlo Maria, L’ira di Dio, Longanesi, Milano 1995, pp. 165,166.
Il teologo, professore di sistematica ad Essen, Ralf MIGGELBRINK, inizia la sua opera L’Ira di Dio – il significato di una provocante tradizione biblica, Queriniana, Brescia 2005, con le parole: «Ho scritto questo libro per contribuire a superare una singolare contraddizione pre­sente nella vita e nel pensiero dei cristiani: da un lato gli uomini notano oggi con stupore che la Bibbia, norma normans della fede cristiana, è un libro pieno di atti violenti e che il Dio biblico sembra essere caratterizzato non solo marginalmente, bensì in maniera sostanziale, dalla sua ira. D’altro lato la predicazione ecclesiale e l’insegnamento della religione tendono a porre, in maniera esclusiva, al centro del discorso cristiano su Dio l’amore e la filantropia di Dio. Questo contrasto singolare ha indotto lo psicologo Franz Buggle a dare a un suo libro, ad esso dedicato, il titolo Essi non sanno che cosa credono – Denn sie wissen nicht, eas sie glauben. Oder, warum man rellicheruweise kein Christ sein kann. Eine Streitschrift, Reinbek 1992» op.cit., 5. Yhwh può derivare dall’ebraico hawwâ (soffiare, sbuffare). Il termine “naso” dall’e­brai­­co af è anche il termine più frequente per indicare l’“ira”. Idem, p. 9, nota 2. È con quest’arma atmosferica (del soffiare, del vento) che il Dio, incontrato dal conduttore d’Israele nel deserto di Madian, si contrappone agli dèi egiziani (che si identificavano con il potente esercito egiziano di carri, cavalli, spade) al mar Rosso, come viene cantato da Mosé (Esodo 15:1-19). L’impegno appassionato di Yhwh contro l’oppressione di chi pratica il cinismo della schiavitù è espresso dallo stato d’animo dell’ira che rappresenta sia la sua forza (la schiumante rabbia di Dio) sia la sua motivazio­ne per la libertà. Op.cit., p. 11. Al tempo del profeta Amos (VIII secolo) le regole stabilite da Mosè sull’eredità della terra, divise per le tribù e le famiglie, erano a difesa del bene sociale di tutto il popolo garantendo il rispetto del povero. Esse erano tese ad evitare di fare della bramosia dell’avere il principio dell’attività econo­mica impe­dendo che nei tribunali i ricchi rivendicassero il proprio avere dai poveri e che quest’ultimi dovessero privarsi di ciò di cui avevano bisogno per sopravvivere,  perdendo così la terra, le proprie radici e la propria identità. A causa dello squilibrio religioso, morale e sociale le ric­chez­ze si accumulano nelle mani di pochi latifondisti che detengono anche il potere poli­ti­co e religioso vivendo nel lusso e causando il depauramento  della maggioranza del popolo. Il diritto che doveva evitare l’indigenza ne è ora la causa. Il peccato che è una realtà interiore, in Amos è presen­tato come la rottura dell’equilibrio sociale, la rottura della comu­nione dell’intero popolo. Il profeta annuncia l’opposizione e la disapprovazione di Yhwh presentando la sua ira. La piaga delle cavallette (7:1-3), il fuoco che distrugge (7:4-6), il terremoto (9:1), la distruzione del popolo (9:8), calamità naturali, invasioni nemiche, che  avrebbero dovuto far riflettere sulla caducità della vita, sono viste dal profeta come espressioni del giudizio puni­tivo di Dio a causa dello squilibrio sociale.
Anche Osea nella seconda metà dell’VIII secolo dà una spiegazione teologica agli eventi sociali. La Tora è la Legge della vita che è radicata nella natura. Disprezzandola non si può non manifestare che la morte. La vita, la pace, il benessere, la prosperità d’Israele dipendono dall’osservanza della Legge.
L’inganno, l’assassinio, il furto, l’adulterio (Os 4:2), l’idolatria (4:11; 9:2), il culto degli antenati (4:13), di Baal (11:2,7) e una generale deeicizzazione del culto di Yhwh hanno allontanato il popolo dalle intenzioni del Dio dell’esodo. L’inaridimento della terra, lo sfiorire dei suoi abitanti, la morte degli animali, degli uccelli e dei pesci (4:3), l’Eterno descritto come leone, leopardo, orsa (13:7,8), la guerra che colpisce tutti (13:16) sono visti come la manifestazione della disapprovazione, dell’ opposi­zio­ne, dell’ira di Dio, dei suoi giudizi nei confronti del suo popolo.
Per Isaia (seconda parte VIII secolo, inizio VII), come per Amos e Osea, la catastrofe d’Israele e di Giuda è intesa come la manifestazione del giudizio di Dio, come espressione della sua ira». Op.cit., p. 18.
Per Geremia (che vede gli eventi della fine del VII secolo) Israele ha tradito la fedeltà al Dio dell’esodo e i culti della fecondità (2:20) e degli astri (19:13; 32:29) sono anche la causa degenerativa che ha portato allo sfrutta­mento dei poveri (2:34). La catastrofe del po­po­lo di Giuda è il risultato dell’oggettiva situa­zione politica alla quale il profeta dà una interpretazione teologica. In questa prospettiva vede nella potenza mesopotamica le armi dell’ira di Dio. L’invasione della supre­ma­zia militare babilonese sarà per Giuda una spedi­zio­ne punitiva (18:20,21), causerà la distru­zione di Gerusalemme (6:2; 26:18), sterminio e deportazione dei suoi abi­tan­ti (26:9), deva­sta­zione del paese (12:12 e seg.).
Pur presentando Yhwh nella prospettiva del Dio che distrugge, il profeta lo annuncia come colui che pianta, edifica che agisce per il rifiorire del popolo (31:28).
L’azione di Yhwh non è per la distruzione d’Israele, la sua ira esprime la sua passione e il suo amore per il suo popolo. Yhwh non può che avere compassione «perché le sue viscere si commuovono per lui» 31:20. o.c., p. 21.
In altre parole l’ira di Dio non è nella prospettiva della punizione-distruzione, come la realtà storica ci presenta, ma nella volontà di recuperare il popolo al proprio progetto di vita. Sono gli eventi che distruggono, ma Yhwh è all’opera per ricostruire l’identità del popolo.
La natura di Dio è amore, vita e la sua caratteristica è la santità, la giustizia. Ciò che gli si oppone non è in posizione neutrale ma di contrasto.  Il soggetto in posizione di contrasto è la creatura e sebbene l’Eterno sia presentato come colui che è sempre alla sua ricerca, il lin­guaggio biblico lo descrive come colui che è in posizione d’ira. Dio è onnipotente per la sua natura non ha nessuna forza devastatrice demoniaca.
Anche il Nuovo Testamento attribuisce all’Eterno l’ira nei confronti degli autori del male e dei ribelli alla sua volontà di salvezza. L’Apocalisse at­tri­buisce il giudizio  a Dio come conseguenza della sua ira (6:17; 11:18; 14:10,19; 15:1; 16:19; 19:15). In contrapposizione a Dio presenta anche Babi­lo­nia che fa bere il vino dell’ira della sua fornicazione (14:8). Il furore umano in una sfrena­ta autodistruzione si scaglia contro la santità di Dio e subisce le conse­guen­ze della propria follia. Dio nella sua determinazione di santità, al giudizio, viene a ristabilire il bene, la giustizia, la vita. L’ira di coloro che con furore si abbattono contro Dio sono colpiti dal proprio furore. Il male e la morte, nell’ira di eliminare Dio, si annientano.
[26] Questa parte è  del Past. A. Pellegrini, o. cit.
[27] La Bible Annotée, Ancien Testament, vol. I, Les livres Historiques – Exode, Attinger fréres, imprimeur-èditeur, Neuchâtel 1889, p. 452.>
[28] Nelle Sacre Scritture, Dio è chiamato Padre in quanto ha compassione (Lc 6:36), perdona (Mc 11:25)  e dona la gloria (Lc 12:32); egli solo ha diritto al nome di Padre (Mt 23:9), ecc.. Nell’A.T. quello che s’avvicina maggiormente a questa concezione è il salmo 103:13: «Come un padre è pietoso verso i suoi figli, così è pietoso il SIGNORE verso quelli che lo temono».

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