02 – Comprendere l’Antico Testamento

0501063Di Georges Stéveny *

 Certamente, il Dio dell’Antico Testamento è perfettamente uguale a quello del Nuovo. «Poiché io, il SIGNORE, non cambio» (Mal 3:9). «Ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c’è variazione né ombra di mutamento» (Gc 1:17). Il Dio di Gesù Cristo rifiuta la violenza. Il suo amore esige il superamento del concetto di giustizia degli scribi e dei farisei. La tradizione giudaica a proposito delle Scritture è ripristinata tramite le famose antitesi: «Mai io vi dico…» (Mt 5).

Di conseguenza, una lettura cristiana dell’Antico Testamento dovrebbe mettere in evidenza l’amore nonviolento del Creatore. Solo questo argomento meriterebbe un volume, ma nel contesto del nostro studio ci limitiamo a sottolineare alcune idee guida che ci aiuteranno a scoprire la vera linea conduttrice della storia d’Israele. Per fare questo percorso, disponiamo, ora, di una pietra miliare indispensabile.

1. Tramite l’uomo compaiono violenza e morte

Fin dalle prime pagine della Bibbia troviamo il delitto e il giudizio. Caino uccide suo fratello Abele. Il crimine appare all’inizio della storia umana. Caino s’impone come conquistatore. Il suo nome significa «acquisire». Ben presto intorno a lui sorge una città, con il suo commercio, le sue tecniche e i suoi giochi. Ma la macchia di sangue si estende. È come se il sangue versato gridasse la colpevolezza degli uomini e la triste disapprovazione di Dio.

«Il SIGNORE disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Il SIGNORE disse: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra”» (Gn 4:9-12). Successivamente, il sangue di un altro parlerà in modo ancora più forte: quello del Figlio di Dio (Eb 12:24), raramente, purtroppo, ben compreso dai teologi della croce!

A partire da quel momento, Caino teme il castigo che pure meriterebbe. «Caino disse al SIGNORE: “Il mio castigo è troppo grande perché io possa sopportarlo. Tu oggi mi scacci da questo suolo e io sarò nascosto lontano dalla tua presenza, sarò vagabondo e fuggiasco per la terra, così chiunque mi troverà, mi ucciderà”. Ma il SIGNORE gli disse: “Ebbene, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui”. Il SIGNORE mise un segno su Caino, perché nessuno, trovandolo, lo uccidesse» (4:13-15).

Dio tenta di ostacolare il processo infernale della violenza; vuole evitare la vendetta. Si spinge perfino a proteggere colui che ha versato il sangue. Da ora in poi, l’uomo non ha veramente alcun pretesto da accampare per togliere la vita. Lo storico Pierre Chaunu osserva: «In tutta la storia dell’umanità, la tradizione giudeo-cristiana è l’unica che attribuisce all’uomo, e all’uomo solo, l’ingresso della morte nel suo destino… La morte, quindi, va imputata esclusivamente all’irresponsabilità dell’uomo… In questo modo la responsabilità di Dio è pienamente prosciolta».[1]

Dio non ha voluto la morte, ma tutto si è capovolto quando abbiamo fatto uso, e continuiamo a farlo, della nostra libertà.[2] Non dimentichiamo le terribili parole di Maurice Clavel: «Le nostre scelte sono più potenti di Dio». Così, quando Dio stesso fa il suo ingresso nella storia, sceglie di incarnarsi nel modo più povero, fragile, minacciato, bisognoso di attenzioni: un bimbo nel grembo di una donna. Precisamente, è il «pensiero della debolezza volontaria di Dio sotto il velo fragile della natura umana che spinge l’apostolo Paolo a gridare che “la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1:25); “perché la mia potenza – dice Dio – si dimostra perfetta nella debolezza” (2 Cor 12:9)».[3]

Quella potenza che si dimostra perfetta nella debolezza, Pierre Chaunu la definisce violenza redentrice di Dio. «Dio è venuto nella storia per questo, per far uscire la morte che abbiamo fatto entrare nel nostro destino, quella morte che Dio non ha voluto, quella morte che egli detesta più di ogni cosa, in quanto il Dio vivente e il Dio di tutto ciò che è vivente, allontana la sofferenza inutile della morte stupida come la parola del serpente».[4]

«Violenza dell’amore di Dio che ha creato l’uomo libero, ha desiderato il suo libero arbitrio rispettando l’uomo anche nell’uso più estremo e radicale della propria libertà che lo induce a scegliere, la coscienza e la morte, la consapevolezza della morte… e, se non si lascia riacciuffare in estremo da Dio, la sua morte eterna».[5]

Che sia ben chiaro! Tra la violenza di Dio e quella degli uomini c’è la stessa distanza che separa la collera divina da quella degli uomini. In entrambi i casi, non siamo in presenza di una carenza di giustizia, ma di una giustizia sovrabbondante. Quando Chaunu parla della violenza di Dio, intende affermare la potenza di Dio utilizzata per sradicare e vincere la morte. Nelle mitologie le divinità sono responsabili, all’origine, della violenza e della morte. La Bibbia, invece, discolpa Dio, fino a presentare lui stesso, in Cristo, vittima della violenza letale degli uomini (2 Cor 5:19).

Questo è il primo raggio di luce che illumina la lettura dell’Antico Testamento. Dio è creatore della vita non della morte. Il Nuovo Testamento è ancora più chiaro: colui che ha la potenza della morte è il diavolo (Eb 2:14).

2. Giudizi provocati dalle infedeltà degli uomini

«Provo forse piacere se l’empio muore? dice DIO, il Signore. Non ne provo piuttosto quando egli si converte dalle sue vie e vive?» (Ez 18:23). L’apostolo Pietro dirà poi che Dio non ritarda il compimento della sua promessa, «ma è paziente verso di voi non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento» (2 Pt 3:9).

Quindi, possiamo dire che nell’ideale divino non c’è posto per la morte. Eppure l’amore e la grazia hanno il loro rovescio incandescente. Ricordiamo ancora una volta l’annientamento dell’esercito egiziano nel mar Rosso. Dio aveva fatto ricorso a ogni azione capace di illuminare gli egiziani e salvarli. Ma in presenza del loro cuore indurito, non aveva altra alternativa, per salvare Israele, che togliere di mezzo coloro che si ostinavano a impedirlo. Ciò che per Israele era un atto di fede – avventurarsi nel mare – divenne l’accecamento più grande per il faraone e le sue truppe. «Il riflusso delle acque annienta l’orgoglio degli arroganti e procura trionfo ai deboli che, coscienti delle loro debolezze, hanno riposto la loro speranza nel Signore».[6]

In questa ottica, Gesù ha citato il diluvio e la distruzione di Sodoma e Gomorra come tipi del giudizio finale. «Come avvenne ai giorni di Noè, così pure avverrà ai giorni del Figlio dell’uomo. Si mangiava, si beveva, si prendeva moglie, si andava a marito, fino al giorno che Noè entrò nell’arca, e venne il diluvio che li fece perire tutti. Similmente, come avvenne ai giorni di Lot: si mangiava, si beveva, si comprava, si vendeva, si piantava, si costruiva; ma nel giorno che Lot uscì da Sodoma piovve dal cielo fuoco e zolfo, che li fece perire tutti. Lo stesso avverrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo sarà manifestato» (Lc 17:26-30).

Sembra quasi che la violenza degli uomini metta in atto anche quella di Dio. Siamo sempre più inclini a pensare, però, che questa sia solo un’apparente realtà. Spieghiamoci meglio. Ogni atto creativo è, di fatto, anche normativo. Non è possibile lanciare sul mercato una nuova macchina senza accompagnarla da un manuale per le istruzioni d’uso.

Colui che crede di poter conoscere l’oggetto meglio del suo inventore potrebbe pagare a caro prezzo quella sua presunzione. In caso di incidente, a chi addossarne la responsabilità? All’impudente, certamente, che non ha rispettato i termini di consegna, ma anche all’inventore, poiché senza di lui non avremmo avuto la macchina né i regolamenti né l’incidente. Al di fuori del Creatore non esistono leggi, né quelle che salvano né quelle che perdono. Allo stesso modo, osiamo dire, avviene con la creazione del mondo. Dio ha descritto in modo chiaro e preciso quale doveva essere il percorso da seguire per essere felici. Tale è effettivamente il senso della parola Torah, che si traduce di solito con  «legge». Una volta gettate le fondamenta della vita, è l’uomo che giustifica in Dio, le conseguenze delle sue scelte. La responsabilità morale incombe su coloro che non hanno rispettato le istruzioni.

L’intervento di Dio è impersonale, direi quasi meccanico. In seguito alla caduta di Adamo ed Eva, le maledizioni pronunciate da Dio (Gn 3:17-19), in realtà, non sono altro che il risultato delle loro scelte aberranti. Non possiamo vedervi un intervento positivo del Creatore.

Jacques Doukhan afferma: «Il giudizio è già presente nell’errore».[7] Diciamolo schiettamente: è la disubbidienza degli uomini che mette in moto «la violenza di Dio», senza la quale l’amore perderebbe di significato, perché non ci sarebbe più ordine, armonia, giustizia. Il termine «violenza» acquista qui un senso molto particolare. Sotto questa angolatura, la nostra concezione di Dio cambia in modo radicale. Non siamo più in presenza di un padre che lancia saette, la cui collera deve essere mitigata con fiumi di sangue.

Yahweh rifiuta il sangue altrui, anche se è consacrato a lui. Protesta con veemenza contro l’invenzione umana di sacrificare i primogeniti. Si erge contro tutti i Moloch sanguinari di cui rifiuta categoricamente gli orrori (Ger 7:21-34). Egli respinge ogni mercanteggiamento. Ciò che desidera è il ritorno dei suoi figli. Il Dio della tenerezza li attende, pronto a organizzare per loro il festino della gioia e della riconciliazione.

Nel commentare la parabola del figlio prodigo, Alphonse Maillot ha affermato in modo ammirevole: «Qui, Dio non è altro che quel “padre” infinitamente paziente che aspetta alla finestra; è colui che non potrà essere se stesso fino a quando il figlio non sarà ritornato. Una pazienza ridotta dalla pazienza. Dio stigmatizzato nell’attesa, consumato dalla speranza per il quale tutto è sospeso, la vita e le ore, fino a che il figlio non farà ritorno a casa. Dio, paralizzato, quasi ridotto all’impotenza a causa dell’amore che prova verso coloro che se ne sono andati lontani da lui».[8]

I giudizi di Dio sono collegati all’ordine della creazione. Il male genera altro male. La Bibbia lo ripete all’infinito senza che noi vi poniamo attenzione. «L’empio sarà preso nelle proprie iniquità, tenuto stretto dalle funi del suo peccato» (Prv 5:22). «Sappiate che il vostro peccato vi ritroverà» (Nm 32:23). «Perciò una maledizione ha divorato la terra e i suoi abitanti ne portano la pena» (Is 24:6). «La tua malvagità è quella che ti castiga; le tue infedeltà sono la tua punizione. Sappi dunque e vedi che cattiva e amara cosa è abbandonare il SIGNORE, il tuo Dio, e il non aver di me nessun timore», dice il Signore, DIO degli eserciti» (Ger 2:19). «Gli empi han tratto la spada e teso il loro arco per abbattere il misero e il bisognoso, per sgozzare quelli che vanno per la retta via. La loro spada penetrerà nel loro cuore, e i loro archi si spezzeranno» (Sal 37:14,15). «Tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada» (Mt 26:52).

Quanto è prezioso riuscire a comprendere che il giudizio di Dio è il volto indispensabile del suo amore orientato verso il ristabilimento della giustizia, dell’armonia, della bellezza e del bene. La creazione di Dio è concepita in modo che l’uomo, separato da Dio, diventi prigioniero del disordine che egli stesso ha generato. Nel linguaggio semitico, l’apostolo Paolo enuncia questa verità affermando che «Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti» (Rm 11:32). Nel prendere consapevolezza che il peccato – cioè la separazione da Dio – conduce a morte, l’uomo si apre all’infinita misericordia di Dio. Il giudizio allora non fa violenza ma produce pazienza e amore.

3. Dio per amore si adegua

Abbiamo appena visto che la morte non proviene da Dio, anzi è il risultato ineluttabile della trasgressione dei principi che regolano la vita. Essa va imputata alla disubbidienza degli uomini. Abbiamo anche visto che il giudizio è collegato all’amore, senza il quale sarebbe sterile. Il giudizio divino genera il ripristino dell’ordine che ogni uomo saggio non può non aspettare con impazienza. Ogni interpretazione della Bibbia che implica il conflitto tra queste due idee diventa subito soggetta a un’ipoteca. Ma c’è ancora un terzo aspetto: Dio si adatta con saggezza e per amore alle circostanze che derivano dai comportamenti umani. Per illustrare questa verità, vediamo un esempio evidente, al quale abbiamo già fatto riferimento: le lettere di divorzio istituite da Mosè. Gesù è categorico: «Da principio non era così» (Mt 19:8). Nell’intenzione di Dio, il matrimonio doveva essere indissolubile.

Ma poiché il cuore dell’uomo si è indurito (sklêrokardía), Dio ha deciso di adattarsi. Lo stesso possiamo dire anche per la poligamia. Lo stesso principio è entrato in gioco quando Israele, imitando le nazioni circostanti, ha chiesto un re. Dio si è sentito rifiutato, ma si è piegato. Ne subiamo ancora oggi le conseguenze. Insistiamo nel dire che la decisione compiuta dal popolo scelto da Dio per rappresentarlo ha, di fatto, alterato le vie della storia.

Un esempio meno noto concerne l’alimentazione: per nutrire l’uomo, il Creatore aveva previsto frutta, legumi e cereali (Gn 1:29,30). La macellazione delle carni evidentemente non era nel menu scelto dal Signore. Oggi, se dovesse mancare la carne ci si crede vittima di restrizioni ingiuste. Sempre più persone protestano contro l’utilizzo degli animali negli esperimenti di laboratorio, per salvare vite umane, ma si preoccupano o si indignano al pensiero di accettare un’alimentazione ovo-lacto-vegetariana per il proprio sostentamento. Credono di esporsi a carenze alimentari se non hanno un po’ di carne o pesce in tavola. Coccolano i loro cani e gatti, ma si dilettano  quando un pezzo di agnello o di manzo arriva nel loro piatto. All’inizio non era così. E il dramma della «mucca pazza», per esempio, comincia a modificare le nostre abitudini alimentari.

È dopo il diluvio che la carne di animali diventa un bene di consumo alimentare. «Tutto ciò che si muove e ha vita vi servirà di cibo; io vi do tutto questo, come l’erba verde; ma non mangerete carne con la sua vita, cioè con il suo sangue. Certo, io chiederò conto del vostro sangue, del sangue delle vostre vite; ne chiederò conto a ogni animale; chiederò conto della vita dell’uomo alla mano dell’uomo, alla mano di ogni suo fratello. Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine » (Gn 9:3-6).

Queste ultime parole rivelano un cambiamento notevole. Il Signore aveva detto a Caino: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui» (4:15). Si trattava del divieto formale del regolamento dei conti. Ma dopo il diluvio, a causa della corruzione del genere umano, scopriamo la prima organizzazione sociale fondata sulla repressione. Che dramma! Si arriva a limitare il male con il male, ossia aggiungendo un male a un altro male.

È il cerchio infernale nel quale l’uomo trascina il suo Creatore, anche se ciò gli costa. All’orizzonte si profila l’ombra della croce. Si può anche notare quanto questa legge sottolinei il carattere sacro della vita. Edmond Jacob, specialista dell’Antico Testamento, lo sottolinea in modo mirabile: «Non si può toccare l’uomo senza toccare Dio stesso, di cui ne è immagine; Dio non richiederà ragione del sangue d’animali, ma il sangue umano è in qualche modo quello di Dio senza che per questo vi sia tra Dio e l’uomo una parentela fisica, come nel mito babilonese».[9]

Quanti passaggi commoventi sono presenti nell’Antico Testamento nei quali Dio si abbandona ai lamenti! Se leggiamo il capitolo 20 del profeta Ezechiele vediamo che l’ira e la pietà si alternano. «Allora parlai di voler riversare su di loro il mio furore e sfogare su di loro la mia ira in mezzo al paese d’Egitto. Tuttavia io agii per amor del mio nome, perché non fosse profanato agli occhi delle nazioni in mezzo alle quali essi si trovavano, in presenza delle quali io mi ero fatto loro conoscere, allo scopo di farli uscire dal paese d’Egitto» (vv. 8,9). Il «tuttavia» domina per tre volte la confidenza di Yahweh, un vero e proprio colpo di freno al suo dispiacere.

Ma in definitiva non può impedire un atteggiamento ancora più orribile: «Diedi loro perfino delle leggi non buone e dei precetti per i quali non potevano vivere» (v. 25). Forse un giorno Dio solo potrà spiegarci fino a che punto si è abbassato e a volte si è «compromesso» per mettersi al livello dell’uomo.[10] Eppure ne abbiamo una sconvolgente manifestazione nell’abbassamento di Gesù che si è svestito per prendere forma di schiavo, ubbidendo fino alla morte in croce (Fil 2:5-11).

Non ci stancheremo di ripetere che è in Cristo che avviene la riforma degli ordinamenti carnali dell’antica alleanza (Eb 9:10). Con lui finisce il tempo degli adattamenti. Gesù è il garante di un patto migliore secondo il quale le leggi divine sono scolpite nel cuore e nella mente (8:10). Non sono, quindi, abbandonate agli apprezzamenti arbitrari e soggettivi degli uomini.

4. La terra promessa

Esaminiamo la quarta idea-guida indispensabile per orientare la comprensione di numerosi brani fuorvianti, perché in essi vediamo trionfare la violenza. Si tratta dell’istallazione d’Israele nella terra promessa, concepita come una conquista militare, con tutti i vantaggi materiali che ne derivano, al  prezzo, purtroppo, di numerosi compromessi.

Promessa differita

La fede di Abraamo è meravigliosa, di lui è stato detto tutto, con lui inizia l’esodo, l’uscita dal mondo senza Dio. Il Signore gli rivolge la parola: «“Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà grandissima”… In quel giorno il SIGNORE fece un patto con Abraamo, dicendo: “Io do alla tua discendenza questo paese, dal fiume d’Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate”» (Gn 15:1,18). Non si tratta, come possiamo vedere, di una terra da conquistare, ma una da ricevere. È Dio che intende donarla, ma per riceverla occorre una condizione: la necessità di attendere la quarta generazione, «perché l’iniquità degli Amorei non è giunta finora al colmo» (Gn 15:16).

Siamo dunque in presenza di una conseguenza della giustizia divina, la sua saggia decisione che lascia a ciascuno la sua possibilità, fino al punto della rottura definitiva. Questo punto finale si chiama fine del tempo di grazia. Arriva il momento in cui il giudice non dispone d’altro che di una sola raccomandazione: o continuare ad agire bene oppure precipitare sempre più in basso. «Chi è ingiusto continui a praticare l’ingiustizia; chi è impuro continui a essere impuro; e chi è giusto continui a praticare la giustizia, e chi è santo si santifichi ancora» (Ap 22:11). Quando cioè il tempo della grazia giunge al suo compimento, la salvezza è definitivamente compromessa o ricevuta. Come se l’avvenire fosse ormai in sospensione. Quello fu il momento che Dio attese per liberare la terra promessa a Israele dagli abitanti idolatri che ancora la occupavano e darla a Israele. Momento in cui la giustizia e l’amore si accordano. Giustizia, perché c’è un giudizio verso gli amorei peccatori; amore, perché la pazienza è andata più lontano possibile nel sperare il loro ravvedimento. Saggezza, poiché il paese di Canaan, con i suoi costumi terribilmente depravati, come sappiamo dagli scavi archeologici, rappresentava per Israele un pericolo più grande dell’Egitto stesso, da cui Dio aveva tratto i suoi figli.

In verità, siamo in presenza di un caso particolare del giudizio divino, finalizzato a proteggere. Il popolo è stato messo in guardia: «… il SIGNORE, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni davanti a te per la loro malvagità » (Dt 9:5). In questo modo, il giudizio di Dio sugli abitanti di Canaan trova un posto necessario nella storia della salvezza.

Popolo eletto: una promessa mal compresa

Mosè avrebbe potuto guidare il suo popolo dall’Egitto alla Palestina in poche settimane. Il piano di Dio, però, era un altro (Es 13:17,18): la traversata del deserto faceva parte dell’indispensabile pedagogia della missione. Liberato per grazia, Israele doveva imparare a vivere con la grazia un’esistenza nuova e moderata (Tt 2:12).

Se l’esodo dall’Egitto potrebbe corrispondere alla giustificazione per fede, l’educazione nel deserto può essere paragonata alla santificazione per fede. La ragion d’essere della vocazione d’Israele era, non lo dimentichiamo mai, quella di far conoscere alle nazioni il vero Dio, l’unico. «Io, il SIGNORE, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, per far uscire dal carcere i prigionieri e dalle prigioni quelli che abitano nelle tenebre» (Is 42:6,7). «Voi me ne siete testimoni, dice il SIGNORE; io sono Dio» (43:12). «Voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra» (49:6). Una parola d’ordine sublime, certamente, ma quanta responsabilità nell’essere, tra le nazioni, i rappresentanti di Dio!

In vista di questa missione immane, paragonabile a nessun’altra, Abraamo deve lasciare il suo paese, Ur di Caldea, l’odierno Iraq. E per giunta senza conoscere la destinazione. Terribile sradicamento per il quale occorreva la grande fede del patriarca. Ma dopo questa partenza davvero occorre mettere radici? La terra promessa doveva ospitare una nazione come le altre, oppure essere una tappa provvisoria, un punto di partenza verso quella diffusione tanto attesa? Il territorio situato all’incrocio delle grandi strade mondiali, era il posto ideale per la missione affidata da Yahweh. Il pellegrinaggio nel deserto, voluto dall’alto, doveva formare Israele a essere un popolo missionario, orientato verso le nazioni. Ma appena uscito dall’Egitto, non si sentirono altro che lamenti e rimpianti  per aver lasciato un paese in cui, nonostante la schiavitù, si poteva godere di una certa sicurezza materiale. «…e dissero a Mosè: “Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall’Egitto?”» (Es 14:11). Nel deserto non ci sono più tombe per i morti né pietanze per i vivi.

A partire da quel momento, i mormorii hanno scandito la marcia senza mai fermarsi. «Ben presto però dimenticarono le sue opere; non aspettarono fiduciosi l’adempimento del suo piano, ma nel deserto furono presi da cupidigia, e tentarono Dio nella solitudine. Ed egli diede loro quanto chiedevano, ma provocò in loro un morbo consumante… Disprezzarono il paese delizioso, non credettero alla sua parola; mormorarono sotto le loro tende e non ascoltarono la voce del SIGNORE. Perciò, egli alzò la mano su di loro giurando di abbatterli nel deserto, di far perire i loro discendenti fra le nazioni e di disperderli per tutti i paesi» (Sal 106: 13-27).

Nonostante tutto, il Signore non si stanca di ricordare il suo proposito: «Dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa» (Es 19:5,6). Nessun ostacolo avrebbe potuto impedire una missione così universale, a condizione però di essere «santi», cioè uniti a Dio e separati dal peccato. Il popolo di Dio non ha capito appieno il piano di Dio. L’ingresso nella Canaan prese l’andazzo di una conquista e di un’invasione, invece doveva essere la manifestazione miracolosa della grazia per l’intervento sovrano del Signore.

La tenuta da guerrieri sostituisce la grazia. Il passaggio del Giordano e la presa di Gerico, senza colpo ferire, ne sono la suprema dimostrazione, in fretta dimenticata, di quello che Dio avrebbe voluto realizzare per i suoi figli. Ma la strategia, in Mosè, non è ancora eliminata a vantaggio della fede. Con infinita pazienza, Dio concede a Israele la libertà di essere comunque una nazione come le altre. Il suo amore non indietreggia dinanzi alle pesanti concessioni. La storia non può che sfociare in guerre spaventose. Il sangue cola a fiotti. Quello dei figli d’Israele in primo luogo ma anche quello degli altri. Ne siamo gli infelici testimoni. Terribilmente falsato dai desideri smodati, il progetto di Dio a proposito della terra promessa diventa il segno di un terribile compromesso, di cui vediamo gli ultimi rigurgiti durante il processo a Gesù, il Messia, quando i capi del popolo d’Israele dicono a Pilato: «Noi non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19:15). Oh, se almeno la chiesa cristiana avesse imparato la lezione!

5. Esortazioni e moniti

Abbiamo cercato di dare il giusto valore alla sacra vocazione d’Israele. Ne va di mezzo la sua grandezza. Purtroppo, il suo immenso desiderio di potenza nei confronti delle altre nazioni si è manifestato nel momento della conquista del territorio di Canaan, ma è giunto al culmine quando più tardi istituirà la monarchia, in opposizione alla volontà di Dio. Come è accaduto ai cristiani, anche gli ebrei hanno spesso confuso le proprie aspirazioni con il volere divino. Guy Labouerie, ufficiale di marina, professore allo Stato maggiore della scuola superiore di guerra navale, dopo aver conseguito una solida formazione teologica, ha sottilmente detto: «Un intelligente miscuglio di ciò che Dio ha detto, di quello che si pensa che Dio abbia detto e di ciò che il re vuole che Dio dica, rende possibile ogni tipo di interpretazione, dal nascondere la verità a fraintendere la parola del Signore con la violenza, una violenza ancora più impietosa perché apparentemente avrà una giustificazione religiosa».[11]

Notiamo con attenzione le sfumature: «Ciò che Dio ha detto, quello che si pensa che Dio abbia detto e ciò che il re vuole che Dio dica»! Chi scrive queste parole non manca di esperienza. Non bisogna fingere che questa osservazione sia pesante, con le sue gravi conseguenze. Pensiamo che sia ben fondata, ma prima di ritornare su questo argomento esaminiamo alcuni dati che ci permettono di vedere la questione ancora meglio.

Dio esige l’assoluta trascendenza della sua alleanza d’amore

 «Il SIGNORE vi ha presi, vi ha fatti uscire dalla fornace di ferro, dall’Egitto, per farvi diventare il popolo che gli appartiene, come oggi difatti siete… Guardatevi dal dimenticare il patto che il SIGNORE, il vostro Dio, ha stabilito con voi» (Dt 4:20,23). È un privilegio impareggiabile accompagnato, per  reciprocità, da inevitabili condizioni da assolvere. Una di queste è la fedeltà nell’umiltà. Ricordiamolo ancora: il Dio della Bibbia, considerato con umiltà, appare come un maestro assoluto. Dio solo è Dio, ma stabilendo un alleanza con noi, ci permette di partecipare alla sua natura divina (2 Pt 1:4). Questo è certamente un privilegio, ma allo stesso tempo una grande responsabilità.

Israele deve permettere la libera azione di Dio

La promessa è chiara: «Il SIGNORE combatterà per voi e voi ve ne starete tranquilli» (Es 14:14). Non siamo certi che Mosè abbia capito appieno questa parola dal momento che, in presenza dei primi nemici, ha detto a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci a combattere contro Amalec; domani io starò sulla vetta del colle con il bastone di Dio in mano» (17:9). È forse ancora sotto l’influsso della preparazione militare conseguita nelle accademie egiziane? Senza dubbio, alza le mani verso il cielo!

Forse, perché l’uomo è troppo incline ad associare Dio alla sua personale volontà? Ci si sente, di certo, più sicuri quando Dio viene schierato in campo. Questo è un triste tentativo di manipolare Dio? Lungo tutta la storia l’uomo non se ne priva. Quando il popolo giunge alle frontiere del territorio di Canaan, la promessa è ripetuta: «Io mando un angelo davanti a te per proteggerti lungo la via, e per introdurti nel luogo che ho preparato. Davanti a lui comportati con cautela e ubbidisci alla sua voce. Non ribellarti a lui, perché egli non perdonerà le vostre trasgressioni; poiché il mio nome è in lui. Ma se ubbidisci fedelmente alla sua voce e fai tutto quello che ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici, l’avversario dei tuoi avversari; poiché il mio angelo andrà davanti a te e ti introdurrà nel paese… e li sterminerò» (Es 20:20-23).

Purtroppo non sono mancate le iniziative di tipo militare, in cui è difficile, se non impossibile, fare la differenza, presso gli uomini, tra l’ubbidienza coraggiosa e l’iniziativa temeraria; e presso Dio, tra la volontà ideale e l’accomodamento circostanziale. D’altra parte non bisogna neppure dimenticare l’influsso misterioso dei costumi culturali. Per esempio, quando Sarah, moglie di Abraamo, spinge suo marito nelle braccia di Agar, sua serva, per avere un figlio, agiva in perfetta armonia con le leggi del suo tempo, pur contravvenendo all’etica divina. La stessa cosa possiamo dire della guerra, compresa, nell’antichità e in armonia con i costumi dell’epoca, come un atto religioso; veniva dichiarata per ordine delle divinità, garanti della vittoria, che venivano ringraziate con l’offerta del bottino. Non mancano gli esempi che illustrano in chemodo Israele abbia subito l’influsso della cultura circostante.

Per quanto riguarda le guerre, il parere di De Vaux, specialista di archeologia biblica, merita una riflessione: «Preferisco dire che qui, come in molti altri casi, l’Antico Testamento attribuisce a Dio  l’ispirazione di azioni che le condizioni del tempo permettevano, ma queste sono contrarie alla morale più elevata che ci viene rivelata nel Nuovo Testamento».[12]

Concordiamo, tuttavia, che Israele non avrebbe dovuto contare sulla forza delle armi per realizzare la propria vocazione. Il suo avvenire dipendeva da Yahweh che si era espresso in modo inequivocabile: «Sappi dunque oggi che il SIGNORE, il tuo Dio è colui che marcerà alla tua testa come un fuoco che divora» (Dt 9:3). È il combattimento della fede, almeno secondo la volontà ideale di Dio. Nel rifiutare questo cammino ideale e santo, si corre verso la rovina e si scende a compromesso. Un giorno Mosè dice al popolo: «Non salite, perché il SIGNORE non è in mezzo a voi. Non fatevi sconfiggere dai vostri nemici!». Incurante la folla si ostina ad andare avanti, ma la sconfitta è bruciante (Nm 14:39-45). Le mura, invece, cadono, al suono delle  trombe, quando il popolo cammina per fede (Gs 6).

Un cupo pronostico

Alla fine della vita di Mosè, il pronostico di Dio era tenebroso. «Il SIGNORE disse a Mosè: “Ecco, il giorno della tua morte si avvicina; chiama Giosuè e presentatevi nella tenda di convegno perché io gli dia i miei ordini”. Mosè e Giosuè dunque andarono e si presentarono nella tenda di convegno. Il SIGNORE apparve nella tenda in una colonna di nuvola e la colonna di nuvola si fermò sopra l’ingresso della tenda. Il SIGNORE disse a Mosè: “Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri; e questo popolo andrà a prostituirsi seguendo gli dèi stranieri del paese nel quale sta per entrare; mi abbandonerà e violerà il patto che io ho stabilito con lui”» (Dt 31:14-16).Tutto lascia pensare che il popolo faccia piani militari al posto di lasciarsi guidare da Dio. In effetti, tutta la storia d’Israele è perturbata da conflitti troppo umani. È totalmente impensabile che siano stati voluti per diritto dal Creatore di tutti gli uomini.

Guerra come conseguenza dell’infedeltà

Le guerre sono spesso presentate come il risultato del peccato. Prendiamo per esempio l’invasione babilonese: «Ecco, io farò in modo che la parola mia sia come fuoco nella tua bocca, che questo popolo sia come legno, e che quel fuoco lo divori. Ecco, io faccio venire da lontano una nazione contro di voi, casa d’Israele, dice il SIGNORE; una nazione valorosa… Come voi mi avete abbandonato e avete servito dèi stranieri nel vostro paese, così servirete gli stranieri in un paese che non è vostro» (Ger 5:14-19; cfr. Dn 9:4-14).

Secondo questo testo, è Dio che manda Nabucodonosor a conquistare Gerusalemme ed è lui che organizza la terribile deportazione. Il Signore non risparmia di denunciare l’infedeltà del suo popolo. Suggeriamo di comprendere questo brano in funzione del principio frequentemente applicato nell’Antico Testamento secondo il quale si mette in conto del Signore quello che egli non impedisce. Secondo questo principio ermeneutico, occorre riconoscere che è stata la disubbidienza di Israele a dare origine, per noi in modo misterioso, a una reazione a catena che sfocia in pieno conflitto.

Una reazione che non corrisponde alla volontà ideale di Dio, ma alla sua volontà circostanziale. Nella storia, troviamo il racconto di interventi personali di Dio, assolutamente conforme a ciò che egli è, a ciò che egli vuole. In quel caso si parla di trascendenza di Dio. Ma esistono anche interventi impersonali di Dio, quando Dio lascia gli uomini e le nazioni seguire le proprie vie (At 14:16). Questi eventi provengono da Dio, poiché è Dio che ha creato gli uomini. Ma essi non sono dovuti alla volontà personale di Dio, perché sono il risultato della disubbidienza degli uomini. In questo caso, allora, si parla dell’immanenza di Dio.

Grazie a questa indispensabile distinzione, tutti i testi biblici, anche quelli più contraddittori, diventano compatibili e omogenei. Solo leggendoli in questo modo possiamo rimanere fedeli all’ispirazione delle Scritture. Occorre sapere ciò che è scritto, il significato delle parole scritte e ciò che era la vera intenzione di coloro che li hanno scritti. La meravigliosa luce della Parola di Dio emana dallo scrigno prezioso della Bibbia.

Pericolo delle alleanze militari

È un peccato fare affidamento sulle armi e le alleanze militari. «Guai, dice il SIGNORE, ai figli ribelli che formano dei disegni, ma senza di me, che contraggono alleanze, ma senza il mio spirito, per accumulare peccato su peccato; che vanno giù in Egitto senza aver consultato la mia bocca, per rifugiarsi sotto la protezione del faraone, e cercare riparo all’ombra dell’Egitto!» (Is 30:1-7). «Voi v’appoggiate sulla vostra spada, commettete abominazioni, ciascuno di voi contamina la moglie del prossimo, e dovreste possedere il paese? Di’ loro: “Così parla DIO, il Signore: Com’è vero che io vivo, quelli che stanno fra quelle rovine cadranno per la spada…”» (Ez 33:26-29).

Accettare il principio della guerra implica una logica violenta alla quale nessuno può sfuggire. Fu per questo che Davide giunse a imporre il famoso censimento. Ma, uomo di guerra, Davide non fu autorizzato da Dio a costruire il tempio per il quale aveva generosamente ideato il progetto, e ciò nonostante la sua pietà profonda e sincera (1 Cr 28:3). Suo figlio Salomone manda a dire a Hiram, re di Tiro: «Tu sai che Davide, mio padre, non poté costruire una casa al nome del SIGNORE, del suo Dio, a causa delle guerre nelle quali fu impegnato da tutte le parti, finché il SIGNORE non gli mise i suoi nemici sotto i piedi» (1 Re 5:3). Assolutamente nulla può sostituire l’alleanza santa, giusta e buona di Dio.

Annuncio della fine delle guerre

Abbiamo visto che l’Antico Testamento è spesso molto severo a proposito delle guerre. Solo una lettura superficiale e disinformata può dare l’impressione che Yahweh si adegui facilmente alla violenza. Aggiungiamo che le promesse di pace, al di là dei tanti riferimenti alla violenza, sono numerose. Come dimenticare la straordinaria profezia che annuncia la scomparsa delle armi a beneficio degli utensili agricoli (Is 2:2-5)? Oppure l’annuncio della nascita di un bimbo che diventerà «principe della pace» (Is 9:5)? A questa armonia parteciperanno perfino gli animali feroci: «Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme… poiché la conoscenza del SIGNORE riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare» (Is 11:6-9). Lo si può dire meglio di così? Con la stessa intensità di Isaia, il profeta Michea annuncia: «Una nazione non alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più la guerra» (Mic 4:6). Ma si intravvede la necessità di  cominciare a vivere immediatamente in accordo con la parola d’ordine concernente la pace? Purtroppo, è lecito dubitare e confessare con amarezza che anche la chiesa fondata da Gesù Cristo non lo ha ben compreso, nel suo insieme, malgrado la nonviolenza sia insegnata nei vangeli in modo inequivocabile.

Dio nascosto

Abbiamo visto che l’alleanza di Dio con il suo popolo doveva avere una forte spinta verticale, a condizione però di non confonderne il significato. Non è possibile salire fino al cielo, seguendo il paradigma della torre di Babele. Simili sforzi producono sempre la stessa confusione che possiamo vedere nella costruzione di quella torre. Gli uomini non riescono più a capirsi tra di loro. Dio solo può rivelare se stesso. Solo lui può rivelarci le condizioni per conseguire la vita e la felicità. Questa è la trascendenza dell’alleanza, come l’abbiamo definita. La conseguenza diretta di questa verità s’impone: occorre lasciare agire Dio, vivere per fede, al rischio di diventare scandalosi per gli uni e folli per gli altri (1Cor 1:20-29). Coloro che non hanno compreso questa verità sono numerosi in Israele anche in presenza della riforma annunciata dalla corrente sacra del profetismo. In ogni epoca ci sono uomini di Dio, straordinari, ammirevoli, pronti a denunciare l’infedeltà, a esortare il ravvedimento e a proclamare la misericordia dell’Altissimo.

Ma quelle stesse persone non mancavano di realismo. Non si sono abbandonati all’utopia, confondendo i loro sogni con la realtà. Abbiamo udito i loro pronostici pessimisti. Ma all’improvviso, hanno scongiurato il ricorso alla soluzione militare come una conseguenza del peccato e alle alleanze politico-militari come pura follia. Il clima di questa storia, raccontata con onestà dalla Genesi all’Apocalisse, è generalmente tenebroso.

Per grazia, riusciamo a intravvedere un pezzo di cielo blu, quando scorgiamo le promesse di pace. Si giunge così ad ammirare la stupenda pazienza di Dio, che si dona con generosità, per ristabilire la pace  nell’universo.

Quanto poco conosciamo il Dio d’Abraamo, d’Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo! Spesso lo confondiamo con il dio dei filosofi. Concepito razionalmente dagli uomini, quel dio agisce esattamente come farebbero loro stessi, se ne fossero capaci. Soffriamo tanto per i nostri limiti, esacerbati dai nostri fantasmi, da concepire Dio a nostra propria immagine, ma spogliato da quei limiti che ci fanno soffrire. L’uomo ambisce alla supremazia: vuole un Dio onnipotente. L’uomo desidera un’ampia conoscenza: vuole un Dio onnisciente. L’uomo vuole scrutare ogni cosa: desidera un Dio onnipresente. Certamente, un Dio simile è frutto della fantasia… fintantoché non ci deluderà. Che venga pure la Shoah a dirci che non vogliamo più quel Dio! O Dio o Auschwitz: o l’uno o l’altro, ma non i due insieme. Senza saperlo l’uomo scivola continuamente verso il paganesimo. Cerca Dio solo per i vantaggi che spera di ottenere, rischiando di arrabbiarsi se Dio non manda via gli invasori (romani), o di andare a impiccarsi per disperazione… Povero Giuda! Beninteso, quel genere di Dio non è sprovvisto di verità. Se l’uomo è stato creato a immagine di Dio, il Dio creato a immagine dell’uomo non può essere interamente falso. Ciò non toglie che non possiamo farci un’idea corretta di Dio semplicemente partendo da noi. È solo in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, che possiamo conoscere il vero Dio.

La Bibbia afferma che Dio ha scelto di nascondersi, soprattutto prima di mostrarsi in Gesù Cristo. Rifiuta di far conoscere il suo nome a Mosè. «Qual è il tuo nome?» chiede l’uomo. «Io sono colui che sono!» risponde Yahweh (Es 3:14). Per quanto possa sembrare sconcertante questa risposta segna un vero progresso (6:3). Ma ciò non toglie che i fedeli sono spesso disorientati: «O SIGNORE, perché te ne stai lontano? Perché ti nascondi in tempo d’angoscia? » (Sal 10:1).

Il profeta Isaia, da parte sua, mostra uno spirito fiducioso: «Io aspetto il SIGNORE che nasconde la sua faccia alla casa di Giacobbe; in lui ripongo la mia speranza» (Is 8:17). Yvan Bourquin scrive: «Il Signore non nasconde agli esseri umani un elemento secondario della sua persona, un attributo della sua divinità senza il quale potrebbero conoscerlo benissimo. Allontana il suo volto da loro. In altri termini, si allontana da loro in modo assoluto, radicale. Non desidera più vederli. È la rottura».[13]

In realtà sono le nostre trasgressioni che ci nascondono il volto di Dio (Is 59:2), e il Dio che si nasconde non smette di essere il Salvatore (Is 45:15). «Nonostante la nostra indifferenza nel riceverlo e ricercarlo, Dio rifiuta di permettere al tempo di fare la sua opera di morte. Egli non può decidere di separarsi da noi, perché ci ama».[14]

Tra terribili derisioni, accetta di rivelarsi in Gesù Cristo, sulla croce, dimostrando una volta per tutte il suo rifiuto di essere Dio a immagine dell’uomo, nella violenza. La sua potenza di vita, irresistibile, si manifesta solo al di là dell’ambito in cui domina il potere degli uomini: nella risurrezione, «secondo lo Spirito di santità» (Rm 1:4). Quando l’uomo non è più in grado di far valere i diritti della sua libertà, anche contro Dio, la potenza dell’amore divino può finalmente rivelarsi nella risurrezione. Al teologo del terzo millennio s’impone una domanda: chi è Dio? Come possiamo riconoscerlo? È colui che si allea con i tiranni o colui che si affianca con i diseredati? È il Dio della violenza o della tenerezza? Ci piacerebbe suggerire che le pagine inquietanti dell’Antico Testamento sono, spesso, anch’esse frutto del Dio che si nasconde per non accecare gli uomini con la sua immensa luce. Dio si fa nostro prossimo nella mediazione storica, ma apparirà definitivamente in tutta la sua gloria nel compimento finale di questa storia.

Conclusione

Tiriamo le somme. All’inizio di questo studio, abbiamo deplorato la decisione d’Israele di organizzarsi come nazione imitando i popoli circostanti, e scegliendo la monarchia. A partire da questa funesta vicenda, la relazione del popolo con Dio viene falsata. Diventa necessario, secondo Guy Labouerie, non confondere quello che Dio ha detto con quello che pensiamo Dio abbia detto o peggio con quello che il re vuole che Dio

dica. Nella tortuosità di questa affermazione, dice l’autore, «si scivola verso la menzogna, si snatura la Parola di Dio e si sceglie la violenza, la più terribile di tutte, quella che si fonda su una giustificazione religiosa». Quando la violenza è alimentata dal fanatismo religioso, supera tutti i confini. Abbiamo accennato a questa difficoltà nel terzo capitolo dedicato alla storia e alla rivelazione. Le piste di riflessione che abbiamo descritto dovrebbero aiutare il lettore, che non può leggere la storia d’Israele nella Bibbia come si legge la storia d’Italia in un testo scolastico. Gesù ha sottolineato l’importanza della conoscenza di Dio, affermando che da essa dipende la vita eterna (Gv 17:3).

Ma la vera conoscenza di Dio probabilmente non è mai spontanea. Richiede una lettura attenta della Bibbia. Non soggettiva, certamente, perché aumenterebbe il rischio di farsi un dio a propria immagine. La sola lettura canonica è quella che Gesù illumina con la sua luce. L’esperienza degli apostoli ci costringe a osservare che non è possibile pervenire a essa anche quando si cammina fianco a fianco con Gesù. La loro reazione lo dimostra bene: quando appresero l’imminente partenza del Maestro, nel quale erano radicati tutti i loro progetti e le loro speranze, Luca ci dice che «essi non capirono nulla di tutto questo» (18:34). Bisogna essere insensibili per non cogliere l’amara delusione del Signore quando afferma: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14:9). Da tanto tempo!

Qual è, dunque, secondo noi, il modo migliore per leggere la Bibbia, ovvero, il modo migliore per conoscere Dio? Prima di tutto occorre rispettare i fatti descritti. Ma su essi occorre fare un commento equilibrato. L’esempio ideale per illustrare questo principio lo possiamo trovare proprio nel censimento voluto da Davide. Il fatto è accaduto veramente, non è il caso di dubitare. Quanto al significato che possiamo trarne dipende da due rapporti formalmente contraddittori. È Dio che «incitò Davide », secondo 2 Samuele 24:1, oppure Satana, secondo 1 Cronache 21:1? Se pensiamo che la responsabilità ricada su Dio, indeboliamo tutto l’insieme della rivelazione biblica. In effetti, l’affermazione di Giacomo è perentoria: «Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno» (Gc 1:13) e Pietro dichiara che nessuna profezia della Scrittura può essere oggetto di una interpretazione particolare (2 Pt 1:20). È necessario quindi ricordarsi che gli ebrei mettevano ben volentieri sul conto di Dio quello che Dio non aveva impedito.

Pertanto, Satana ha tentato Davide, il quale non ha resistito, facendo credere che egli agiva in questo modo sotto la pressione di Dio. Questa è la verità morale, secondo la lettura del cronista (1 Cr 21:1). Ma Davide era accecato dal suo temperamento bellicoso. È da Dio che noi riceviamo la vita, il movimento e l’essere. Senza la forza di Dio, Davide non può fare nulla. Scarica quindi su Dio tutto ciò che compie, incluso il censimento vietato. Questo è l’aspetto ontologico e teologico, secondo la lettura di Samuele (2 Sam 24:1).

Ricordiamo ancora che la Bibbia non è stata redatta in modo sistematico, secondo la mentalità dell’uomo contemporaneo, eppure, emette un suono pulito, se la leggiamo con la dovuta attenzione. Ancora un altro esempio per illustrare la necessità di non isolare i testi e trarre delle conclusioni affrettate. È la storia di Giobbe. A partire dal capitolo 2 entrano in scena i suoi amici, Elifaz di Teman, Bildad di Suac e Zofar di Naama. Cercando sinceramente di aiutare l’uomo provato, ricorrono a tutta la loro eloquenza per convincere il disgraziato ad ammettere le sue colpe. Infatti è più che evidente, secondo il loro pensiero, che Dio non punisce senza un motivo. Questa è la loro convinzione che si armonizza perfettamente con la teologia dell’epoca. I loro sermoni si spalmano fino al capitolo 25. Sono costruiti così abilmente da essere tentati di accettarli come vera Parola di Dio! Ma occorre discernimento, perché Dio li disapprova in pieno: «Il SIGNORE disse a Elifaz di Teman: “La mia ira è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe”» (Gb 42:7).

Quanti cristiani sinceri, ancora oggi, quasi duemila anni dopo la grande illuminazione della prima venuta di Cristo, continuano a credere che Dio sia responsabile di tutte le nostre sventure. Ed è per questo che lo si adora, prostrati, con la fronte nella  polvere, tremando, senza amore, oppure lo affossiamo nella rivolta e nell’ateismo. Abbiamo tanto bisogno di sentire accanto a noi l’infinita tenerezza di Dio.[15]

Per essere fedeli al testo biblico, bisogna rispettare i fatti. Ma per fedeltà al Dio d’amore, bisogna evitare di leggere senza discernimento. Non ci inganniamo. Siamo profondamente convinti che tutte le Scritture siano ispirate da Dio. Oggi, il concetto ben diffuso di una ispirazione non concettuale permette di prendersi troppe libertà con i testi.[16]  Facciamo dire alla Bibbia quello che in essa desideriamo trovare. In questo caso, cessa di essere Parola di Dio e diventa, ahinoi, parola d’uomo. Per ritrovare la Parola di Dio nella Scrittura, conviene prima di tutto, come scrive l’apostolo Paolo, riceverla non «come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete» (1 Ts 2:13). Poi, senza «spegnere lo Spirito», è indispensabile «esaminare ogni cosa e ritenere il bene» (cfr. 5:19-21).

Note:
[1] P. CHAUNU, La violence de Dieu, R. Laffont, Paris, 1978, pp. 129,137.
[2]
È vero che probabilmente Dio abbia sgozzato l’animale da cui ha tratto la pelle per rivestire Adamo ed Eva (Gn 3:21). Pedagogia alla quale Dio ha deciso di fare ricorso a causa della caduta dell’uomo e della sua grazia redentiva. L’uomo scopre in effetti che cos’è realmente la morte di cui è stato graziato (Gn 2:17). Ma scopre anche che è solo Dio che può «coprire» la sua nudità, conseguenza del peccato, e purificare la sua coscienza (Eb 9:13,14). Si trova in sintesi e in germe tutto il dramma della redenzione. «Coprire» nel linguaggio biblico spesso diventa sinonimo di perdonare, ma il termine implica.
[3]
P. CHAUNU, op. cit., p. 211.
[4]
Ibid., pp. 200,201.
[5]
Ibid., p. 129.
[6]
Ibid., p. 188.
[7]
J. DOUKHAN, Il grido del cielo, Edizioni Adv, Impruneta, 2001, p. 102.
[8]
A. MAILLOT, Les paraboles de Jésus, Labor et Fidès, Genève, 1973, p. 153.
[9]
E. JACOB, Théologie de l’Ancien Testament, Delachaux et Niestlé, Paris, 1955, p. 137.
[10]
Cfr. P. CHAUNU, op. cit., p. 100. «La filosofia dell’onnipotenza antropomorfica e della duplice predestinazione, a essa implicata, scarica su Dio la responsabilità del male; su di lui grava il peso di tutti i retaggi dell’universo. Questa filosofia ricalca un Dio avaro, parsimonioso e tirannico».
[11]
G. LABOUERIE, Dieu de violence ou Dieu de tendresse, Cerf, Paris, 1982, p. 46.
[12]
Cit. da P. TOURNE, Cahier de la Réconciliation, n. 11-12, Paris, 1962, p. 7.
[13]
Y. BOURQUIN, Le journal de IEBC, Institut d’Etude de la Bible par Correspondance, vol. 8, n. 2, été 1995, p. 2.
[14]
Ibidem.
[15]
Cfr. G. STÉVENY, Nel labirinto di Giobbe, Edizioni ADV, Impruneta, 2010.
[16]
La teologia moderna ha la pretesa di affermare che l’importanza di Cristo fu così grande agli occhi dei primi cristiani che la realtà dei fatti storici sia stata abbandonata e sostituita con la fede. Si afferma che essi abbiano trascurato la storia reale a favore di quella vivente, in cammino. (La storia concreta è quella che racconta l’evento in sé, mentre la storia vivente esamina le sue conseguenze). A partire da questo fatto la Bibbia deve essere destoricizzata, deve disfarsi della storia reale. Per conseguenza non solo perdiamo di vista i concetti del vero nella Bibbia, ma anche i suoi racconti sono sprovvisti di ogni fondamento storico.

* Tratto dal libro “LA NONVIOLENZA DI DIO E DEGLI UOMINI”, ed. AdV, Impruneta (Fi), 2011

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